VIDEOCRAZIA
Lunedì, martedì, mercoledì. Ogni giorno ha la sua (nuova) serie tv di Matteo Persivale
HAI VISTO
la nuova puntata
di Broken? E quella di Ghosts of Shepherdstown? The Stand Ups? Vice Terror? The Defenders? Snowfall? Glow? The Good Place? The
Handmaid’s Tale? Ormai siamo arrivati al punto che, parlando con uno dei – pericolosissimi, ormai: la situazione è sfuggita di mano – appassionati di serie tv cerco di contrattaccare inventandomi lì per lì nomi di telefilm inesistenti per cercare almeno di spiazzarli un po’, per trovare qualcosa che non abbiano visto e rallentare il flusso di citazioni, trame, attori dell’ultimo serial apparentemente da non perdere. Come spiegavo in una rubrica di qualche tempo fa, mi sono rifiutato di vedere il nuovo Twin Peaks per una serie di ragioni abbastanza complessa (in sintesi: mi è piaciuta tantissimo, 27 anni fa, la prima serie, mi è sembrata tremenda la seconda dell’anno successivo, il fatto che da un decennio Lynch non giri più film non depone a favore di questa resurrezione a scopo di lucro del suo più grande successo). Ma è in generale la saturazione del mercato dei serial tv a lasciarmi allibito: ne arrivano di nuovi ogni settimana, conseguenza della tragedia di un’offerta sempre più ampia, di una programmazione 24 ore su 24 via digitale terrestre e satellite, e non parliamo neanche del on-demand digitale. Già mi intristisce la terminologia – lo slang – che è necessariamente inglese visto che si tratta per la maggior parte di produzioni americane, da binge
watching (le maratone nelle quali si guardano ore e ore di tv, puntata dopo puntata, bruciando vari anni di programmazione in qualche giorno) a content (i famigerati “contenuti”, cioè il ripieno della salsiccia dei palinsesti (come tutte le salsicce, meglio non pensare a cosa c’è dentro e a come sono state fatte).
MA ANCHE
se il gergo fosse meno irritante non riesco a non pensare al romanzo Infinite Jest di David Foster Wallace nel quale c’è un fantomatico film talmente appassionante che chiunque lo guardi non può fare a meno di continuare a guardarlo, una
seconda volta, una terza, e così via, fino a non fare nient’altro fino alla morte (nel romanzo, una banda di terroristi sta cercando di mettere le mani su una copia del film). Siamo davvero arrivati al punto in cui l’intrattenimento ha come scopo quello di inchiodarci
davanti a uno schermo (tv, computer, iPad, telefono: poco importa ormai) nelle nostre case senza lasciarci fare nient’altro? Una cosa è la crisi del cinema (aggravata, per noi non-millennial, dal numero impressionante di film di supereroi che vengono prodotti): capisco che non sia più tanto pratico nel 2017 prendere la macchina per andare al cinema, parcheggiare abbastanza a caro prezzo, comprare il biglietto e finire circondati da altre persone spesso rumoreggianti e/o incapaci di non controllare il telefono nel buio della sala ogni tre minuti, per non parlare dell’orribile aroma del popcorn. Ma se la soluzione alla probabile obsolescenza della vecchia sala con grande schermo (alzi la mano chi ha figli neonati e crede che il cinema in sala sarà la loro forma primaria di intrattenimento quando avranno vent’anni, non dico trenta o quaranta) è l’orgia del potere delle serie tv con la loro proliferazione fuori controllo nelle nostre case, allora più che di Videocrazia dovremmo parlare di Videodittatura.