«Per una buona intervista: quattro giorni e tre registratori»
Ex direttore e intervistatore-principe di Sette, racconta di incontri mancati («D’Alema si è sempre negato»), di dialoghi mai pubblicati, di quando fu sequestrato da Oriana Fallaci («Alla fine firmai un’intervista brutta, non mia»). E di quella volta che l’intervistato lo ringraziò con una sterlina d’oro. Chi era? Non a tutto si risponde
INTERVISTARE QUALCUNO È UN MESTIERE DA LADRI: bisogna rubargli l’anima senza che se ne accorga. Claudio Sabelli Fioretti meriterebbe l’ergastolo. Aggiungerei un’ammenda pecuniaria da devolvere al sottoscritto. Quando arrivò per dirigere Sette, io ero caposervizio e lui 1) pretendeva titoli brillanti anche quando c’erano articoli che nemmeno con il lucido per scarpe; 2) voleva che tagliassi le prime 15 righe di ogni pezzo perché, sosteneva, erano inutili; 3) ogni due per tre minacciava di mandare lettere di fuoco all’editore. Una volta ne scrisse una, prontamente intercettata dall’immensa segretaria Lucia Rossi, nella quale dava le dimissioni. Mai farlo, ci sono buone probabilità che vengano accolte, riuscii a convincerlo. Insomma, un direttore divertente e imprevedibile, un po’ fumino. Con lui lavorai quasi tre anni, poi prese la via che lo portò a Cuore. Qualche tempo dopo ricomparve come intervistatore-principe di Sette guidato da Maria Luisa Agnese. Le sue diventarono le pagine più gettonate dai lettori. Ora è davanti a me perché, se permettete, intervisto l’intervistatore per rubargli il mestiere. Cominciamo dall’inizio...
«Calma, calma, intanto stai sbagliando tutto. Hai portato un solo registratore? Orrore, ce ne vogliono almeno due, anche tre. L’idea che uno non funzioni mi ter-ro-riz-za. Con Elisabetta Gardini me ne trovai davanti quattro. Uno l’aveva portato lei: “Scusi Sabelli, non è per sfiducia”. “No no, si figuri”». Allora prendo anche l’iPad, va bene? Cominciamo: visto che, per farti assumere da Lamberto Sechi a Panorama ti raccomandarono tutti, tuo padre, giornalista sportivo, Marco Fini, altro sportivo, Giorgio Fattori, Gianni Farneti, chi ti ha raccomandato come intervistatore? «Paolo Mereghetti, caporedattore quando dirigevo Sette, fece da pigmalione. Ogni volta mi diceva che so, “c’è da intervistare Gigi Riva e solo tu puoi farlo”. Siccome tra preparazione, incontro e scrittura ci vogliono quattro giorni, mi venne il sospetto che mi mandasse via perché così il giornale lo faceva lui. Ma Sabelli l’intervistatore nasce con Paolo Mieli e con Maria Luisa Agnese». Da chi hai imparato a fare le interviste? «Da me stesso». Presuntuoso, c’erano la Fallaci, Gervaso... «Gervaso è troppo sincopato “cioè, quindi, allora”, fa venire l’angoscia. Le interviste di Oriana Fallaci non erano belle, erano sempre contestate e se un’intervista è contestata vuol dire che non è riuscita». Lo dici tu. Mai incontrata? «Sì, per Panorama. È l’unica intervista di cui mi vergogno. Mi allertano “guarda che ti rapisce” e infatti così è. Io avverto un amico e gli dico “se non torno dopo due giorni chiama, chiedi di lei e dille che Renato Curcio, dalla latitanza, vuole incontrare Sabelli domani al solito posto”. Passano due giorni, il mio amico telefona e fa la scenetta. Lei si incazza come una iena “chi sarà mai questo Curcio, se preferisci lui a me…” . Insomma, mi caccia, scrivo l’intervista, gliela mando. Mi chiama “bellissima, ora la riscrivo”, insomma ce la riscriviamo a vicenda per tre volte. Alla fine vince lei e io accetto di firmare un’intervista brutta, non mia». Come nasce un’intervista? «Talvolta ho un’idea, raramente. Preferisco sia il direttore a scegliere il personaggio». Come ti prepari? «Studio. Se tu l’avessi fatto avresti dovuto leggere tutti i miei articoli, le 600 interviste, pari a 11 anni di lavoro, i venti libri, aver sentito i miei amici e i miei nemici». E i 14 editori che ti hanno licenziato e le 3 mogli e due compagne… «Che mi hanno licenziato. La preparazione è fondamentale». Poi, l’appuntamento. C’è un tempo minimo per l’intervista? «Meno di tre ore non si può. In una mezza giornata persino Sergio Japino qualcosa tira fuori». Però quell’intervista non fu pubblicata. «Per fortuna. Lui stava con Raffaella Carrà, mi convoca al centro wellness dell’Hilton di Roma. Arrivo e mi accorgo di aver dimenticato le domande. Panico. Io non ho memoria e intervistare con nulla uno che non ha nulla da dire... finito tutto, scrivo e qualcosa tiro fuori, ma lui mi telefona e dice: “C’è qui uno che vuol fotografarmi, non ho tempo”. “Senza foto, niente intervista”, rispondo. E così me la cavo». Altre interviste mai uscite? «Quella con Antonella Boralevi, non si riconosceva. Ma in chi doveva riconoscersi? O quella con Alain Elkann: interruppe perché non voleva che gli chiedessi dei figli». Ci sono limiti alle domande? «Nessuno, devi chiedere di tutto, anche se soffre di prurito ai piedi. Spesso la notiziola viene fuori dalla domanda cretina. L’intervista perfetta è quando te ne vai e l’intervistato si chiede “ma chi è quel coglione che mi hanno mandato?”. Le domande non devono essere per forza intelligenti, le risposte devono essere intelligenti. E comunque quelle, diciamo scomode, vanno lasciate alla fine. Poi ci sono i trucchetti». Tu sei un prestigiatore, vedi l’intervista a Gianna Nannini. «Le ho fatto dire di essere polisessuale». Come ci sei riuscito?
«Spesso la notizia viene fuori dalla domanda cretina. L’intervista perfetta è quando te ne vai e l’intervistato si chiede “ma chi è quel coglione che mi hanno mandato?”»
«Col processo di identificazione e di complicità. Se parliamo di sesso, io racconto tutto di me, vero o falso che sia: episodi, esperienze, posso anche dire di essere sadomaso o feticista». Più che processo di complicità, direi tecnica del paraguru. «Curiosità, applicazione e paraculaggine sono le doti fondamentali di un intervistatore. Che deve essere amorale, raccontare qualsiasi cosa per portare a casa il risultato. Bisogna fare gli amiconi anche mentendo perché certo non puoi essere amico di Gasparri o Salvini o Lotti, ma lo devi sembrare. Mai presentarsi come un poliziotto che cerca di incastrare qualcuno. Con taluni, poi, diventi davvero amico». Per esempio? «Antonio Pennacchi. Fu un incontro esilarante: ogni due righe diceva una parolaccia, così ci inventammo il bip, vaffa’ ‘n bip, non rompermi il bip». Che cosa non bisogna mai fare durante l’intervista? «Mai mollare. Se non ti risponde ci riprovi. La teoria della seconda domanda non l’ho inventata io, ma io l’ho spremuta in tutte le maniere. Oggi invece, specie in Tv, si è persa. Un po’ Lucia Annunziata la sostiene ancora». Mai incappato nella sindrome di Stoccolma? «Molte volte: con Luciano Lutring, con Angelo Rizzoli, i perdenti mi fanno tenerezza, con Sandro Bondi e persino con Berlusconi». Come andò? «Il Cavaliere si era sempre rifiutato di concedersi nonostante il mio sistema di accerchiamento. Per convincerlo intervistavo tutti quelli che gli stavano attorno. Poi ci riesco, lo incontro e gli dico, a bruciapelo, “presidente, lei è gay”. Lui si gira ed esclama “ma lei è un pervertito”. Gli chiedo “presidente, posso tirarle i capelli?”. E lui “faccia pure”. Ecco, uno così, al di là di tutto, non può essermi antipatico». Anche Bondi ti sta simpatico. «Un giorno mi chiama e sussurra: “Dottò, dottò, ma perché ce l’ha con me? Ogni due per tre sono io il voltagabbana delle sue interviste”. “E che ci posso fare, me lo dicono gli altri”, rispondo. Alla fine decido di ascoltarlo perché si difenda. Lo vado a trovare ad Arcore e mi confessa “sono diventato quello che sono perché ho dovuto fare da scudo a Berlusconi, però ne soffro”. Chapeau». Nessuno ha mai tentato di “corromperti”? «Se dopo l’intervista una persona che ha un meleto ti dona un cesto di mele, è gentilezza. Clementina Forleo produce-
va olio e mi regalò una tanica da 25 litri. Luciano Benetton mi diede un maglioncino, non dei suoi, uno di cachemire inglese. Totò Cuffaro, detto Vasa Vasa, si prodigò in un bacio. Clemente Mastella mi mandò una scatola di torroncini». Tutto qui? «Una volta, finita l’intervista con un personaggio di spicco, lui si alza, mette le mani in tasca e “toh, una sterlina d’oro. Chissà come c’è finita. Vabbè, la tenga lei Sabelli”. Rimango basito e la metto in tasca». Sarà stato un banchiere. Chi era? «Nemmeno sotto tortura, altrimenti la prossima volta non mi regala un’altra moneta d’oro. A casa ci ripensai, mi vergognai ed elaborai la strategia Sabelli. Ogni volta che ricevo un regalo, faccio preparare un pacco dono di eguale valore con prodotti tipici della mia zona e lo mando “accetti questo presente in ringraziamento del nostro incontro”». L’intervista è finita, qual è il metodo Sabelli o il metodo Fioretti se preferisci? «Prima bisogna sbobinare la registrazione. Ho una squadra di schiavetti, pagati profumatamente, che lo fanno. Mi arrivano 150 mila battute che devono diventare 10/12 mila». Un incubo. «Faccio così: hai presente il gioco della montagnetta in spiaggia quando si toglie pian piano la sabbia finché il bastoncino al centro cade? Bene, prima tolgo le ripetizioni, i pipponi, le visioni del mondo, e arrivo a 60 mila. Poi scremo il contenuto. A 20 mila ci metto un giorno per passare a 12 mila spolpando fino all’osso. Alla fine, con domande di non più di tre righe e risposte di non più di dieci, ho l’impressione che ci sia una notizia ogni riga e che il ritmo, fondamentale, sia perfetto». Poi ricordo che c’era il rito della rilettura. «Non transigo, l’intervista va fatta rivedere all’intervistato perché difendo la mia formula della percentuale. Se tu mi dici che la rileggerò, io mi lascio andare e se normalmente ti direi 100, magari ti dico 140. Poi può darsi che ti chieda di togliere 10, ma così ti rimane 130 e hai guadagnato 30 sull’obiettivo del cento per cento». Ma a Sette ti guardavi bene dal rileggerla tu, mica scemo. «Qui subentrava il metodo Enriquez. Un’amica e collega paziente e determinata, Rachele Enriquez, mandava l’intervista. Quando le dicevano “questo va tolto”, lei rispondeva “non può, Sabelli è il più grande intervistatore d’Italia”, oppure “correggere Sabelli, lei correggerebbe Dante?”. Così, quasi sempre, otteneva il risultato». L’intervista più curiosa? «Tante. Adriana Faranda la incontrai il giorno delle Torri Gemelle, passammo il tempo a guardare la tv con lei che commentava “ma insomma, guarda cosa sono capaci di fare questi terroristi, è una vergogna”. Carla Bruni mi diede appuntamento al Cafè de Flore a Parigi, mi raccontò che il matrimonio non è poi così importante, che gli uomini vanno presi e mollati. E, mentre parlava, mi toccava e ritoccava… Con Luca Giurato mi sono divertito come un pazzo». Ricordo, mi telefonò in redazione dicendo “carissimo, volevo ringraziare il tuo direttore e anche te, ti leggo sempre”. L’ultimo pezzo l’avevo scritto cinque anni prima. Chi ti manca da intervistare? «Molti si sono negati. D’Alema, per esempio. Oggi gli chiederei e richiederei l’unica cosa che si può chiedere: “Lei non ne ha beccata una, ha sempre perso e, non sostenga il contrario, continua a fare politica. Perché dice che Renzi se ne deve andare perché ha perso?”. E a Renzi domanderei e ridomanderei: “Se uno dice che se ne va se perde il referendum, perché poi non se ne va insieme alla Boschi che dice vengo anch’io, vengo anch’io, anch’io?”». E chi non intervisteresti mai? «Intervisterei chiunque. Se rinascessero chiederei un incontro con Hitler, con Pol Pot. Certo, con qualcuno potrei avere difficoltà. Grillo, per esempio, perché non sta ad ascoltare, è come Pannella: fa comizi». Che cosa gli domanderesti? «Se davvero pensa che chiedere l’opinione a 150 persone via web sia democrazia. Confesso, sono stato tentato dai 5 Stelle, ma a Grillo direi: come si fa a credere a un movimento di proprietà di due persone una delle quali ha ereditato dal padre?». I migliori intervistatori? «Sopra tutti, e sempre, Stefano Lorenzetto: è più bravo di me, anche se lui dice il contrario». Giovani o emergenti? «Mi piace Malcom Pagani del Messaggero. Mi assomiglia». Come deve essere una buona intervista? «La noia è la sua morte». Spero che questa sia divertente. «Me la fai rileggere, vero?» Non so, che cosa mi regali? «Questa è tentata corruzione». A proposito chi ti diede la moneta d’oro? «Non-te-lo-dico».