HALLGRÍMUR HELGASON 101 REYKJAVÍK
Reykjavík in un mattino d’inverno: un paesino della Siberia. Raffiche di neve alla luce dei lampioni e atmosfera buia e mare gelido e salato… un intruglio… e spiagge cagliate. Poltiglia masticata intorno a penisole crude e fredde, montagne di antica costituzione, rifiuti dimenticati, tumuli di cenere dell’era pagana, rottami dell’età del ferro. Escrementi glaciali induriti, ammuffiti e bianchi per la neve accumulata intorno a questa precaria città fatta di castelli di carte in cemento, un accampamento di costruzioni computerizzate destinate a sopravvivere per l’arco di una sola notte. Case a due piani in cemento dalle mura in rovina, crepe come rebbi di forchette e ombre di alberi alcalini in giardino, congelati e ibernati, con i fragili rami di porcellana pronti ad accogliere uccelli morenti che non vi si posano mai. Una città morta senza uomini né foglie né uccelli né insetti, una città in cui perfino i fantasmi si aggrappano con tutte le loro forze alle corde per il bucato, consunte da tempo nelle tempeste infinite e indifferenti, nei venti sfrontati. Un maltempo infinito dentro di te, una bora, una tramontana interiore travagliata, un destriero incitato dalle raffiche, un Kauri curioso che sopraggiunge di corsa con la forza del vento e ti avvolge al collo una folata, la serra con quattordici nodi e ti morde il volto, sparge sale sulle ferite e ti spruzza gelo negli occhi».