COSA POSSIAMO FARE? Quanti sono gli africani che lasciano i loro Paesi per raggiungere l’Europa? Perché lo fanno, se il viaggio è così rischioso? Esistono soluzioni concrete (e tempestive)? Le risposte di un’esperta di cooperazione che vive e lavora nell’
SONO ATTERRATA IN ITALIA DA POCHE ORE, PROVENIENTE DALL’AFRICA.
Tutti parlano di migrazione: amici, conoscenti, vicini di treno, persone al bar, voci in televisione. Tutti demonizzano (molto) o santificano (sempre meno) i migranti, a seconda dei punti di vista. Lavoro nella cooperazione in Africa subsahariana: anni in Etiopia, Sud Sudan e nel Corno d’Africa e ora sul versante occidentale, Senegal, Mali, Sierra Leone tra gli altri. Ogni volta che torno nel mio Paese i toni sono sempre più aspri. «La nostra gente non ce la fa più!», si lamentano persone insospettabili, fino a qualche anno fa paladine dell’accoglienza.
COSA È SUCCESSO QUI IN ITALIA? cosa succede là in Africa.
Non lo so: ma posso aiutarvi a capire Sono un tecnico che lavora “a casa loro”: questa è la mia istantanea, personale e parziale. Per cominciare: migranti, rifugiati, profughi e vittime di tratta sono categorie diverse, spesso confuse tra loro. Tecnicamente si chiama “migrazione mista” perché le ragioni della partenza sono molteplici, mentre i rischi sono tragicamente gli stessi. Quanti hanno diritto di asilo devono essere accolti, con una equa distribuzione tra gli stati Ue. Ma sono una minoranza. Chi sono invece i “migranti economici” africani, quelli che vediamo
nelle nostre città? Si sa che la maggior parte proviene dall’Africa occidentale e centrale. Si ignora, invece, che da noi
arriva appena il 20 per cento di questi perché l’80 per cento si sposta, ma rimane nella regione.
Nel 2017 circa 95.000 persone – non solo africani – hanno raggiunto l’Italia per mare, seguendo la rotta del Mediterraneo Centrale, che passa per la Libia. Il 14 per cento sono minori non accompagnati e hanno necessità specifiche: per loro l’Italia s’è appena dotata di una legge all’avanguardia. L’Europa può accogliere l’intera Africa? No (tra l’altro non lo ha mai chiesto nessuno).
Ma un continente di 508 milioni di abitanti può sentirsi invaso, davanti a questi numeri?
La risposta è lastessa: no. LUNGO IL CORRIDOIO MIGRATORIO
che dalla Guinea Bissau arriva in Senegal ho incontrato potenziali migranti, e altri di ritorno dalla Libia, con il loro bagaglio di orrori. Tutti conoscevano i rischi del viaggio; eppure sono partiti. Perché? Raccontano del desiderio di un futuro dignitoso, dello status che ottieni in seno alla comunità:
i migranti che aiutano le famiglie sono considerati simboli di successo.
Le fotografie che spediscono sono rassicuranti: posano davanti ad auto di lusso, in posti belli e accoglienti. La morte è vissuta come una fatalità: vista dall’Africa ci sono cose peggiori, come la fame o la vergogna. Le madri hanno fatto collette, gli abitanti dei villaggi si sono tassati per organizzare lotterie ( tontines) affinché qualche giovane possa tentare il viaggio. Partono quelli che se lo possono permettere, che s’indebitano o vendono il bestiame. Ma qualcosa sta cambiando. Una giovane madre con un neonato in braccio, coinvolta in uno dei progetti di impiego locale sostenuti dall’Italia, mi ha assicurato:
i giovani della cooperativa non vogliono più partire perché, potendo scegliere, preferiscono restare.
La migrazione economica deriva da un intreccio di povertà, sottoccupazione, stress ambientale (siccità), mancanza di infrastrutture sociali, cultura, pressione antropica. Chi emigra cerca opportunità dove pensa di poterle trovare, magari seguendo la narrazione di chi ha lasciato l’Africa negli Anni 80 e racconta di aver trovato in Europa agiatezze che non esistono più. Infine c’è una sfida demografica all’orizzonte: l’Europa invecchia, mentre i giovani africani passeranno da 230 a 452 milioni nel 2050. Pensiamo di respingerli con le armi oppure immaginiamo un futuro di collaborazione? Certo: si deve continuare a lavorare sulle cause profon- de della migrazione irregolare e bisogna riformare il sistema di asilo europeo, a partire dal trattato di Dublino. Ma intanto
ci sarebbero alcune cose da fare: subito. 1. CREARE CANALI LEGALI DI MIGRAZIONE.
La possibilità di emigrazione legale – anche temporanea – toglie le persone dal circolo vizioso della clandestinità, del lavoro nero, della semi-schiavitù, dell’elemosina e della delinquenza. Prosciuga i pozzi che alimentano una guerra tra poveri e un immenso, orribile giro d’affari. Servono politiche che facciano incontrare domanda e offerta di lavoro attraverso un reclutamento trasparente. Il decreto-flussi 2017 prevede l’ingresso in Italia di appena 17.000 lavoratori stagionali, mentre le strade sono piene di giovani africani inoccupati: che senso ha?
2. TRASFORMARE LA LEGALITÀ IN UN INCENTIVO.
Creare regole certe e condivise significa anche applicare il rigore. Chi non rispetta la legge dello Stato che lo accoglie e il nostro patto sociale non può essere accettato. D’altro canto, chi lavora e si comporta correttamente, dovrebbe essere facilitato in vista di una futura immigrazione, magari circolare (ingressi multipli, a distanza di tempo).
3. LAVORARE ALL’INTEGRAZIONE (SERIAMENTE).
Per funzionare, le regole hanno bisogno di integrazione. Ci sono gap di natura socio-culturale: è un dato di fatto, una fonte di conflitto e un motivo di frustrazione. Per facilitare la comprensione reciproca andrebbe rafforzata la rete dei mediatori culturali, sui luoghi di lavoro, nei quartieri. Viene fatto? Poco e male.
4. SOSTITUIRE IL MITO.
Esiste, nell’Africa che conosco, l’idea dell’Europa come luogo dalle infinite opportunità. I racconti e le fotografie spedite dai migranti, o postate sui social, contribuiscono a rinforzare questo mito. Dev’essere invece sostituito con un nuovo mito: il successo nel proprio Paese d’origine. I nostri migliori alleati sono proprio i migranti della diaspora, quelli integrati da anni in Italia: possono diventare i testimoni privilegiati di una realtà europea e africana in evoluzione. Meno pancia e più pragmatismo. Cerchiamo soluzioni: ci sono.