PICCOLI AMORI
«IL FIUME GREVE E SONNOLENTO tagliava in due il groviglio antico del centro. I molti ponti di pietra e di ferro inarcavano svariate melodie da sponda a sponda. Il più vecchio alzava il dolore irrigidito dei suoi gruppi di statue incatenate nella luce bruna o argentea, che mutava a ogni istante. Parevano cupe druse di cristallo quelle figure animate, che il peso della storia aveva fatto scaturire dagli archi di roccia del ponte. Ma l’occhio di Hugo si fissava soprattutto sull’immensa cupola del Teatro Nazionale, che se ne stava accovacciata, ampia e verde nel sole, fra il gotico slancio delle cento torri issate verso il cielo e, oppure si profilava come un architettonico spettro d’animale sopra la nebbia, che sempre verso sera emanava dalla città. Egli era stato condotto già due o tre volte in quel teatro. Da allora il suo cuore spiava l’edificio dalla cupola verderame, dentro la quale c’erano cose che lo mandavano in estasi: il sipario dipinto pateticamente, la volta piena di luce, le voci degli strumenti, quell’odore unico, misto di polvere fine, di muffa, di profumo, di donne, e il magico mistero della scena, il mistero di uno spazio irreale che taglia quello reale, più potente ancora dello spazio divino che invade con la sua penombra lo spazio terreno della chiesa».