DONNE PASTORE
No, non siamo tante piccole Heidi
«QUANDO ESCI A PONTREMOLI
segui per Arzelato, fai prima . Prendo una strada stretta fatta di tornanti, buche, guardrail inesistenti e parti franate: se questo è il percorso più veloce, figuriamoci l’altro. Ma si sale in fretta: intorno i boschi verde scuro della Lunigiana, in basso la valle che si allontana, dopo una curva una trentina di pecore che bloccano il passaggio e una donna in jeans e canotta che cerca di mandarle sul prato vicino.
«Sei Cinzia? . lei: ex restauratrice, da molti anni pastora. Un lavoro che sta coinvolgendo un po’ a sorpresa un numero crescente di donne, circa un quarto degli 8.200 iscritti da Nord a Sud all’Associazione nazionale pastorizia, quasi 17.000 secondo l’Istat (elaborazione dati Ismea su censimento 2010): « difficile orientarsi tra i dati Istat e di enti vari che le classificano in base ad almeno una mezza dozzina di categorie spiega Serena Di Nuccio, giovane imprenditrice del settore che al tema ha dedicato la sua tesi di laurea. C’è chi ha rilevato da subito l’azienda di famiglia, chi si è dedicato ad altro e poi è tornato, chi non aveva mai visto una pecora in vita sua ma a un certo punto ha deciso di cambiar vita.
SE VE LE IMMAGINATE
sotto un albero a sonnecchiare vicino al gregge come in certi quadretti bucolici di una
«Mungono, curano le bestie, le portano al pascolo, preparano il formaggio, lo vendono...» «Niente romanticismo, molto realismo: bisogna far tornare i conti
volta vi sbagliate: le pastore si ammazzano di lavoro. Mungono, curano le bestie, le portano al pascolo, le vanno a riprendere, preparano il formaggio, lo vendono, gestiscono la contabilità, alcune ricoprono incarichi nelle associazioni di categoria, se hanno un agriturismo cucinano pure. Quello che invece è uguale a una volta, anzi peggio, sono i lupi, per noi una favola, per loro problema quotidiano: il ripopolamento ha funzionato anche troppo, c’è chi ha perso un capo, chi otto, chi undici: «Ci è cambiata la vita. Se prima non avevamo un’ora per noi, adesso ancora meno. Ci siamo attrezzati con recinti e cani maremmani ma non basta, attaccano anche di giorno e vicino alle case racconta Cinzia Angiolini. Alleva l’agnello di Zeri, presidio Slow Food, e da un paio di mesi è anche assessore nel suo comune (Zeri, appunto). «Ho avuto problemi di salute, anche per colpa dei solventi per il restauro. Così alcuni anni fa ho rilevato l’azienda di mio padre, che da solo non ce la faceva più . Adesso da sola è lei: «Più il mio compagno a metà tempo, perché fa anche l’impiegato, e mio fratello quando può, perché anche lui ha un altro lavoro . Ma un collaboratore no? «Non me lo posso permettere . Stesso problema per Patrizia Figaroli, una sessantina di pecore, qualche capra, tre mucche, una casa del Cinquecento con 45 stanze che un po’ alla volta sta restaurando: piuttosto grande per un pastore. «Eravamo nobili, poi il mio bisnonno si è giocato case e terre e mio nonno si è messo a fare il lavoro dei mezzadri . Lei ha studiato ragioneria, ha provato a usare il diploma ma stare in ufficio non le piaceva. Ha due figli, suo marito geometra le dà una mano. «Che cosa mi manca? Una giornata libera… va già bene se riesco a prenderne mezza per andare al mare .
ANNA KAUBER È ARCHITETTO
del paesaggio agrario. Di pastore ne ha incontrate più di un centinaio in tutta Italia, dai 20 ai 102 anni, documentando a video i loro racconti. Il suo lavoro, cominciato per interesse personale, diventerà un documentario ( Pastore:
femminile plurale, coprodotto da Solares Fondazione delle Arti - quelli di Il sale della terra, il documentario di Wim Wenders e Juliano Salgado sul fotografo Sebastiao Salgado, per dare un’idea - la stessa Kauber e Akifilm). «Le pastore sono l’ultimo avamposto dei territori di montagna. I guardiani delle terre alte. Senza romanticismo, con molto realismo: attente ai conti, al reddito e ben consapevoli della loro scelta, fatica e sacrifici compresi. Non sono delle Heidi fuori di testa » . Non lo è certamente Maria Pia (Pia è il cognome), 33 anni, una laurea in economia aziendale. «Volevo fare l’architetto. Poi i miei genitori hanno rinnovato il caseificio e io, che comunque avevo sempre dato una mano, mi sono appassionata » . Nell’azienda in provincia
di Frosinone, 700 capi tra mucche, pecore e capre, ci sono anche il fratello, i genitori e due collaboratori. « difficile lasciare un’impresa familiare, ti sembra un po’ tradire. Se resti, cerchi di ritagliarti lo spazio per cui ti senti più adatta. A me piace stare in mezzo alla gente e così al pascolo adesso ci va qualcun altro. Io preparo il formaggio con mia madre e mi occupo di promozione: grazie ai finanziamenti del progetto Strategie aree interne del governo stiamo creando un biodistretto. E poi cerchiamo di coinvolgere la gente: avevamo invitato 15 persone con noi alla transumanza in alpeggio, ce ne siamo ritrovate un’ottantina, tutte entusiaste della notte in bianco e della lunga passeggiata . Di solito a 33 anni si ha ancora voglia di serate con gli amici e discoteca. «E infatti ci vado: in un’ora e mezzo sono in centro a Roma, in un quarto d’ora a Cassino, e in valle ci sono tanti locali carini .
A VOLTE LA VITA SOCIALE È PIÙ COMPLICATA:
Ombretta Cavani vive in Garfagnana a 40 minuti dal primo centro abitato (duemila abitanti), almeno altrettanti per arrivare in una città (Lucca o Massa): «Se il mio compagno non mi spronasse un po’ per uscire nonostante le distanze ammattirei. Ma non mi manca niente e sono contenta, anche se all’inizio è stata dura perché nell’azienda dei miei genitori sono tornata dopo 15 anni da impiegata . Anna Maria Trombetta, fattoria biodinamica nelle Alte Langhe, si è presa due anni fa la prima settimana di vacanza col marito dal 2002: «E solo perché i miei figli adesso sono abbastanza grandi da poter seguire l’azienda per qualche giorno . « alle coppie che mi chiedono come si fa a diventare pastori: cominciate poco alla volta, non è un mestiere per tutti conclude Lucia Morali, ex maestra, ex contabile, da vent’anni allevatrice e produttrice di formaggio di capra in Val Brembana con il marito ex commerciante e, adesso, con il figlio ventenne: «Abitavamo a Bergamo. Abbiamo iniziato con una casa acquistata per l’estate, il fieno prodotto per scherzo, qualche capra per mangiarlo. Ma non essendo contadini abbiamo sbagliato i conti: il fieno non finiva mai e a forza di comprar capre eccoci qua. Ci siamo licenziati e abbiamo cambiato vita. Perché questa è una scelta di vita. Non c’è niente di bucolico: è un lavoro che dà tanto se lo fai con passione, ma toglie anche tanto. Uscite con gli amici? Una volta ogni due mesi. Vacanze? Che cosa vuol dire? .
«Volevo fare l’architetto, ma ho cambiato idea. E poi, lasciare un’impresa familiare è un po’ tradire» «Cominciate un po’ alla volta: questo non è un mestiere per tutti