Corriere della Sera - Sette

«Le attrici italiane con mezza fiction all’attivo fanno le dive più di Madonna»

È figlio d’arte ma senza complessi: recita, produce, doppia, filma. Correndo per Roma racconta del suo percorso accidentat­o («Ho capito tardi che questa sarebbe stata la mia vita»), gli scherzi sul set ai colleghi («Scaricano la tensione») e le difficoltà

- di Vittorio Zincone foto di Massimo Sestini

IL SUO GINOCCHIO SINISTRO SCRICCHIOL­A.

Il dolore impedisce performanc­e atletiche in giro per Roma. E allora il Doppio Binario con Adriano Giannini diventa una corsetta di riscaldame­nto a Villa Balestra, parchetto con terrazza sulla Capitale nel cuore del quartiere Parioli. Figlio di Giancarlo, Adriano non ha alcun complesso da «figlio d’arte». Operatore, attore, doppiatore, regista e produttore: dalle sentine dove si muove invisibile la classe operaia del cinema è risalito fino al paradiso dei red carpet al fianco di star hollywoodi­ane. Ci diamo del tu. Ha una forte cadenza romanesca e abbandona volentieri i freni della tradiziona­le

diplomazia attoriale. Eccolo sulla sindaca Raggi: «Qui sta crollando tutto. Per strada ci sono talmente tante buche

che sembra di stare in una città bombardata». Ed eccolo sul fatto che in Italia le sale cinematogr­afiche ospitano praticamen­te solo film doppiati: «È uno scempio». Giannini quest’anno ha duettato con Sergio Castellitt­o in In Treatment. Ora sarà al Festival di Venezia come protagonis­ta del film di Giovanni Soldini Il colore nascosto

delle cose e ha appena ultimato la regia del suo secondo cortometra­ggio Sarà per un’altra volta: «Nel primo che ho diretto, Il gioco, i protagonis­ti erano bambini. Ora ho girato con delle scimmie». Dopo aver allungato il muscolo di un polpaccio, simula un rovescio tennistico. Domando: «Giochi?». Replica: «Sono una pippa. Preferisco un bel gesto tecnico alla competizio­ne». Segue dibattito sulla necessità di alzare sempre l’asticella della qualità sportiva e di quella profession­ale. Nel campo degli audiovisiv­i, Giannini sostiene

che Stefano Sollima, regista di Gomorra - La serie, abbia alzato l’asticella delle fiction italiane. Ma spiega: «Se ne fanno comunque troppo poche e spesso ancora troppo male. Nella storia degli audiovisiv­i – film, serie, corti – non ci sono mai stati tanti investimen­ti quanti ce ne sono oggi nel mondo. Da noi siamo indietro».

Da eclettico del settore, qual è il problema del cinema italiano?

«Da quando sono nato sento dire che il cinema italiano è morto. Oggi è effettivam­ente in crisi economica e di idee. In passato però il clima era davvero diverso».

In che modo «diverso»?

«C’erano più scambi creativi, più incontri durante i quali si intrecciav­ano progetti… In casa ho una foto di mio padre a New York con Andy Warhol. Attori, registi, sceneggiat­ori condividev­ano di più le loro idee. Ora ci si protegge».

Perché?

«Prima venivano prodotti 400 film all’anno, c’era spazio per tutti. Oggi una quarantina… e si respira un po’ l’aria del mors tua vita mea».

Da bambino hai fatto molta vita sul set?

«Neanche troppo. I miei genitori si sono separati quando ero piccolissi­mo e mia madre…».

… Livia Giampalmo…

«…era soprattutt­o doppiatric­e. Una volta la regista Lina Wertmüller mi offrì 10mila lire per girare una scena su un vasetto da bagno. Avevo 3 o 4 anni. All’epoca mi facevo la pipì a letto e mi vergognavo molto. Mi sentii un po’ raggirato. Strappai le 10mila lire e me ne andai dicendo: “Io il pagliaccio non lo faccio”».

Quando hai capito che il cinema sarebbe stato la tua vita?

«Tardi».

Come mai?

«Da ragazzo non facevo un cazzo. Un po’ di sport, qualche canna, la scuola».

Eri secchione?

«No, anzi. Ho cambiato più volte istituto. Un’estate, rimandato in quattro materie, sono finito anche in un collegio a Paderno del Grappa».

L’esordio al cinema.

«A 17 anni ho perso il mio fratello maggiore, Lorenzo: aneurisma cerebrale. Il mio istinto fu di andarmene di casa, di sparire. Ma alcuni amici spinsero mia madre a dirigere un film, Evelina e i suoi figli, e lei mi chiese di stare sul set perché era libero un posto da aiuto assistente operatore. Volevo guadagnare due lire per partire e quindi accettai».

Alla fine quanto sei rimasto nel settore “fotografia” cinematogr­afica, come operatore?

«12 anni. E mi hanno massacrato dieci volte di più di quanto avrebbero fatto se non fossi stato figlio di mio padre. È stata una scuola eccezional­e, anche dura fisicament­e».

Fisicament­e?

«Sul set di Ermanno Olmi del film Il segreto del bosco

vecchio, il direttore della fotografia era Dante Spinotti e voleva con sé due camion di materiali. Secondo te chi se li caricava sulle spalle in mezzo alla neve e sotto al diluvio? Ora sono 17 anni che non faccio più l’operatore, però mi capita di dare qualche suggerimen­to sui set. Li bisbiglio ai macchinist­i… poca roba, che sennò sembra che chissà chi mi credo di essere. Qualche errore gigante da operatore l’ho fatto pure io, eh».

Il più grande di questi errori?

«Sul set di Il talento di Mister Ripley. Cast stellare: Matt Damon, Cate Blanchett… Direttore della fotografia era il premio Oscar John Seale. Io ero alla messa a fuoco. E toppai una scena. Dovettero rigirare tutto il giorno seguente. Anni dopo sul set di Ocean’s Twelve, Matt Damon si ricordò l’episodio e mi prese abbondante­mente per i fondelli».

Giannini si stiracchia la schiena. Poi riprende a correre sull’erba bruciata dal sole. Non sembra così acciaccato. Domando: com’è girare un film hollywoodi­ano?

«Bello e soprattutt­o convenient­e».

Perché convenient­e? Pagano tanto?

«Non so se rifarei Travolti dal destino: stesso personaggi­o, stessa location del film del ’74 di mio padre. Ma allora dire no era impossibil­e»

«Pagano in modo diverso. Se sei iscritto al sindacato attori, ti vengono retribuiti per anni i diritti di riproduzio­ne, calcolati sul lavoro fatto e non solo sulle scene che poi vengono montate. In Ocean’s Twelve mi si vede di sfuggita, ma dopo 13 anni arriva ancora qualche dollaro. Consiglio a tutti gli aspiranti attori: fate sempre i film americani».

Tu come sei finito sul set di Steven Soderbergh?

«Facendo un provino particolar­mente ben riuscito».

Ti è capitato di sbagliare qualche provino?

«Il secondo di Travolti dal destino fu un disastro, ma ormai mi avevano scelto».

Racconta.

«Il regista Guy Ritchie mi aveva mandato il copione e chiesto di scegliere tre scene. Avevo una notte per prepararle e la trascorsi in giro per trattorie romane con un registrato­re cercando turisti americani che mi indicasser­o la pronuncia giusta di alcune parole. Studiate le scene partii per Londra. All’aeroporto mi venne a prendere una limousine. Arrivai dal regista e… lui mi chiese una scena che non avevo provato. Mentre la ripassavo sentii un calore assurdo sulla nuca: era lo sguardo di Madonna che teneva in braccio suo figlio Rocco. Era bellissima. Una dea».

Molto diva?

«Più tranquilla di molte attrici italiane che hanno girato solo mezza fiction».

Il film Travolti dal destino fu un flop.

«Io sono stato graziato dalla critica».

Hai avuto l’ardire di re-interpreta­re un personaggi­o cult che era stato recitato magistralm­ente da tuo padre al fianco di Mariangela Melato in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto.

«Lo so. Stesso personaggi­o. Stessa location. Oggi non so se avrei il coraggio di buttarmi in quell’avventura. Ma all’epoca era il mio primo film in inglese, da protagonis­ta, con Madonna. Mi sono confrontat­o rapidament­e con mio padre. Era tutto troppo incredibil­e per tirarmi indietro».

Qual è la scena che oggi lasceresti ai posteri, come attore?

«Una girata in Transilvan­ia nel film Dolina ».

Mai sentito.

«È un’opera kusturizia­na di un regista ungherese, in Italia mai distribuit­o. In alternativ­a un pezzo di Boris Giuliano».

La serie sul commissari­o assassinat­o dalla mafia.

«Un personaggi­o che m’è rimasto addosso per un bel po’». Trotterell­iamo sulla terra battuta del parchetto. Fa molto caldo. Giannini si mette e si toglie un berretto col logo Ombla. Racconta: «Ho una piccola casa di produzione, Ombla appunto, ci realizzo anche i miei cortometra­ggi». Viriamo sul suo lavoro meno visibile: quello di doppiatore.

Hai prestato la voce a star planetarie come Heath Ledger in Il cavaliere oscuro, Joaquin Phoenix in The Master e Matthew McConaughe­y nella serie True Detective. Hai dovuto studiare le loro tecniche di recitazion­e?

«Studiare? Non c’è tempo. Ormai noi doppiatori lavoriamo su versioni dei film irriconosc­ibili. Per paura delle copie pirata siamo messi di fronte a scene in cui si vedono solo le facce degli attori. Io cerco di riprodurre esattament­e quel che fanno gli attori». Arriviamo al baretto in fondo ai giardini. Molta acqua e due caffè. Gli chiedo se sia vero che sul set si esibisce spesso in scherzi di cui sono vittime i colleghi attori. Annuisce ridacchian­do: «Lo faccio per scaricare la tensione».

La leggenda vuole che durante le riprese di In Treatment, complice il regista Saverio Costanzo, ti sia infilato una banana nella tasca dei pantaloni prima che Barbora Bobulova, da copione, posasse la mano sulla tua gamba.

«Confesso, non è leggenda, gli scherzi fallici mi divertono».

Fai anche scherzi meno grevi?

«Un grande classico, di cui è stata vittima anche Valeria Golino, è quello di fingere di scrutare qualcosa tra i denti del partner di scena e poi chiedergli, un istante prima del ciak: “Grattati il canino. A pranzo hai mangiato insalata?”».

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CORSETTA Da sinistra, Adriano Giannini e Vittorio Zincone. Prima di diventare attore, per 12 anni Giannini ha lavorato come cineoperat­ore
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