Scrivere a mano ci dice chi siamo
Il polso che si muove, le dita che stringono la penna e premono per lasciare segni sulla carta: la scrittura è una manifestazione del corpo. Sviluppa la memoria, stimola il pensiero astratto e la diversità
EERAVAMO TUTTI SCRITTORI. Oggi siamo tutti (o quasi) digitatori. E il cambiamento non porta solo vantaggi: rapidità, facilità di diffusione, spinta alla socializzazione. Lamenti e proteste contro il predominio della tastiera si levano ormai dall’Europa all’America alla Cina. In questo paese, in particolare, la crescente sostituzione della penna con il tasto del computer, data la complessità dei caratteri non alfabetici, sta portando danni irreparabili alla memoria nazionale e alla coscienza intellettuale degli stessi individui, sempre più divisi dai segreti del segno. Negli Stati Uniti e in Canada è partita una “campagna per il corsivo”, che ha per fine il rilancio della biro nelle scuole primarie. Anche a Harvard si trovano professori che impongono ai loro studenti di prendere appunti a mano, non con il computer (dovrei farne anch’io una regola a Oxford, dove, per la verità, gli esami vengono tuttora svolti con tecnica pre-digital). Da noi, in Italia, esiste una giornata nazionale della scrittura a mano, il 23 gennaio, che invita i frequentatori dei social a postare un campione della loro grafia; e l’Istituto Grafologico Internazionale Girolamo Moretti di Urbino si sta adoperando perché la scrittura a mano sia proclamata patrimonio dell’umanità dall’Unesco.
ÈÈ ormai dimostrato da numerosi studi che la scrittura a mano sviluppa la capacità mnemonica, organizza le informazioni nel cervello in aree specializzate, stimola il pensiero astratto e la diversità. D’altronde, non è neppure vero che il significato stia solo nel concetto. Esiste una dimensione psicologica ed emotiva in cui i concetti non sono distinguibili da chi li concepisce e da come li si concepisce: il mezzo che li elabora è parte essenziale del processo di significazione. A chi conosce un po’ di mandarino o è capace di leggere un geroglifico egizio questo è più che mai evidente. Ecco una prima differenza cruciale tra scrittura a mano e digitalizzazione: il messaggio digitato non porta traccia di me. Potrebbe averlo composto chiunque. Non è una manifestazione evidente del mio corpo, il ricordo di una presenza agente. In un certo senso, non è autentico. Le lettere non le ho fatte io. Le ha fatte un impulso elettronico tramite un tasto che qualunque pressione potrebbe attivare. Certo, il mio corpo ha pur sempre agito. Ma chi può dirlo? Non io che ho composto il messaggio, non tu che adesso l’hai davanti agli occhi. Neppure un esperto grafologo. L’evento originario e originale è dissolto: quel muoversi consapevole del polso, quello stringere delle dita, quel premere perché la parola affondi nelle fibre della carta, quel marchiare la superficie con un’immagine di me, unica, inconfondibile, che io stesso non potrei ripetere mai identica.
LA SCRITTURA MANUALE, INFATTI, È UN’IMMAGINE DI ME adesso e qui; una trascrizione del mio esserci, in cui si esprimono memoria, emozione, volontà, piacere estetico, desiderio di continuare. Lo scrivente sta in una dimensione teatrale, perché compie un’azione, e procede di scelta in scelta, svoltando, allungando, chiudendo, schivando, disgiungendo, collegando. Scrivere è cosa tutt’altro che superficiale e lineare. Etimologicamente significa “incidere”. Chi scrive scende. Così era all’origine dei tempi. L’inchiostro è venuto dopo, a mimare il segno del solco nella rupe. Chi scrive entra nella materia della natura; fonde la sua vita con la vita; si àncora nella storia con una prova d’esperienza, come avesse danzato o corso per il bosco. E questo lo compie con disciplina e intelligenza. Non c’è sgorbio o scarabocchio che non riveli un apprendistato di sé e una comprensione della realtà circostante. Scrivere mi protegge; mi dice che ci sono, che sono io e nessun altro. Mi tornano in mente due scene del mio passato. Molti anni fa mi trovavo a Bali in vacanza. Cercavo un posto tranquillo, lontano dalle bancarelle e dagli altri turisti. Cammina cammina arrivo a una grande spiaggia deserta. Mi sistemo da qualche parte – avevo solo l’imbarazzo della scelta – e in un istante lo spazio si popola, come per magia, di venditori ambulanti. Non essendoci altre persone, vengo conteso da decine di mani, tirato di qua e di là. Non serve scuotere la testa, comprare un ananas o un pareo, regalare spiccioli, cambiare postazione. L’assalto non diminuisce. Chissà quale istinto mi suggerisce di accasciarmi sulla sabbia là dove mi trovo, di tirare fuori il mio diario e di mettermi a
scrivere. Come la penna tocca il foglio, il parapiglia si dirada. Fingo di non guardare ma vedo bene che intorno a me, via via che sposto la punta sul foglio, si va formando il vuoto. La gente retrocede, volta le spalle e all’improvviso, con nuova magia, è sparita, riassorbita nella luce del bel pomeriggio. Non ho mai stabilito se gli indonesiani abbiano un particolare rispetto della persona che scrive o se in qualunque altra parte del mondo le cose, in simili circostanze, sarebbero andate nella stessa maniera. Ma il punto non è questo.
L’ALTRO RICORDO, PIÙ RECENTE: mio padre vecchio, malato d’Alzheimer, che prende carta e penna, si rifugia in un angolo del soggiorno e comincia a scrivere. Non l’ha mai fatto, mettersi a scrivere come un intellettuale. Non sarebbe stato da lui, uomo di studi elementari e di nessuna pretesa intellettuale. E che cosa scrive con tanto impegno? Il suo nome. Neanche di quello, infatti, è più padrone. La scrittura doveva restituirglielo. Nella scrittura – la semplice firma – quell’uomo disperato aveva sperato di ritrovare la perfezione della mente. Di là dalla mia esperienza personale, questi due esempi ci raccontano che la scrittura permette all’io di contenersi in sé, è zona protetta della coscienza. Scrivendo, avvengo, mi affermo, mi riconosco. L’esistenza è una dimensione troppo vasta perché possiamo pretendere di agirvi da protagonisti. Con una penna in mano la riporto alle dimensioni di casa. La mano si muove sulla carta come io mi muovo nel mondo. Lo diceva Petrarca. Petrarca diceva anche che aveva sempre una penna in mano. Scrivendo, io decido dove andare, come, a che velocità. Lì, in una simile capacità di decidere sta, credo, una delle radici più arcaiche di quella intenzione grafica che chiamiamo letteratura. Gli scrittori di professione – penso a certi grandi classici – amano il gesto dello scrivere prima e più ancora dei pensieri che con quel gesto sapranno indicare. Amano disegnare, e lo fanno con le lettere dell’alfabeto. Scrivere e disegnare, se non ci curiamo delle specifiche espressioni di queste due attività, sono una cosa sola. La storia è piena di esempi in cui la scrittura vale come attività in sé, oltre che strumento della comunicazione convenzionale. Michelangelo, Blake, Dickinson, Walser, Proust… Perfino James Ellroy, fabbricatore di trame complesse e zigzaganti, continua a scrivere a mano. Ma tutti, portando una punta sul foglio, diventiamo automaticamente artisti. Creiamo qualcosa, e intanto ci creiamo, svolgendo nel contempo un compito assolutamente naturale, come il ragno, come la lumaca, come la pioggia sulla polvere. La scrittura a mano è quel livello minimo di artisticità consentito a tutti attraverso cui sentirci liberi e alleati della realtà.