Come ti piazzo il prodotto
Cinema, letteratura, tv e ora le pagine dei social. Sono tante le strade che permettono di far entrare nella testa dei consumatori un desiderio di acquisto. Il primo a parlarne? Karl Marx ne Il Capitale
IL TEMA DELLE FORME sempre più narrative di pubblicità è delicato, perché i media digitali stanno riscrivendo le regole del gioco e permettono di barare o bluffare: ci sono società che piazzano pubblicità di prodotti odierni nei vecchi telefilm che vengono ritrasmessi; e una persona influente sui social può prendere migliaia di euro o dollari per una singola foto in cui sta pubblicizzando un prodotto, se l’immagine appare genuina, autentica, vera. Anzi, è questa patina di spontaneità a esaltare il potenziale promozionale dello spot camuffato, posizionandolo dritto nei cuori dei follower. Piano, però, con l’indignazione facile: la cosa non è nuova e va affrontata senza pregiudizi. Due, le
premesse necessarie. Prima: quando c’è un marchio di una nota azienda in una posizione importante, persino nel titolo, non vuol dire per forza che siamo di fronte a un messaggio pubblicitario; altrimenti saremmo portati a pensare che quel capolavoro di
Colazione da Tiffany (romanzo del 1958), già dal titolo, sia un’operazione di marketing e qualcuno, spinto da cieca iconoclastia, lo cambierebbe in
Colazione davanti alla vetrina. A Capote, infatti, Tiffany non diede nulla, né prima né dopo; nel 2001 invece a Fay Weldon, Bulgari diede soldi e gioielli perché in The Bulgari Connection la marca venisse citata tot volte. Seconda premessa: il fatto che la presenza di un marchio non sia vistosa, non vuol dire che non costituisca una pubblicità (magari occulta), un product placement o una “marchetta”, come spregiativamente si definisce l’elogio interessato, spesso prezzolato, di un prodotto. Lo scopo del product placement 2.0 è proprio piazzare un prodotto in un contesto narrativo, cinematografico, televisivo o web in maniera pianificata, onerosa e non invasiva. Chi segue la storia non deve avere interruzioni, l’inserzionista camuffa bene lo spot, il produttore ha un bel vantaggio.
Ricordate che i cellulari usati in Matrix erano Nokia? Ora no, ma forse all’epoca vi ha agevolato l’acquisto. In Italia il product placement, dopo anni di anarchia, è stato regolato nel 2004 per il cinema e poi nel 2010 per gli altri audiovisivi, stabilendo principi di coerenza narrativa e trasparenza. Il mercato dei social, al momento, sembra un far west, anche se già il Codice di consumo prevede sanzioni per i professionisti che omettono informazioni utili. Intanto, è intervenuta l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato, con lettere spedite a
influencers come Chiara Ferragni e Belen Rodriguez, e aziende come Vuitton e Adidas, invitandole a usare hashtag appositi, per segnalare che il post o lo scatto fotografico è #sponsorizzato o l’articolo è un #prodottofornitoda… SI TRATTA PER ORA di moral suasion, non sono previste sanzioni. Funzionerà? Certo sta crescendo la consapevolezza del pubblico che coglie gli “indizi commerciali” in una foto su Instagram: l’account del marchio, la visibilità del simbolo, la leggibilità del brand, la centralità del prodotto, la naturalezza ostentata… Sapete chi fu il primo a capire il potenziale narrativo intrinseco alle merci? Un influencer ante-litteram, Karl Marx, e ne scrisse nel Capitale (1867); il primo, indiretto, product placement in un’opera letteraria è nel poema La nuvola in calzoni (1915) di Vladimir Majakovskij, che riportò le ultime parole gridate da un condannato a morte, vendute dalla famiglia a una industria di cioccolata: “Bevete cacao Van Houten!”, urlò il poveretto dal patibolo, non sappiamo con quali effetti sulle vendite per l’azienda. Nel poema La terra
desolata (1922) di T. S. Eliot, invece, c’è un gioco di parole sulla marca di capelli Stetson, che veniva usata dal maestro di Eliot, Ezra Pound, e diventa il nome di un amico tra la folla. Più che pubblicità occulta, qui siamo all’occultismo. Ma è nel romanzo che emerge il potere promozionale di una storia, per il principio del “desiderio mimetico”, individuato mezzo secolo fa dal critico letterario René Girard in opere come Don Chisciotte e Madame Bovary (in Menzogna romantica e verità
romanzesca, 1965), anticipando meccanismi psicologici della pubblicità e la teoria dei neuroni a specchio, per cui empatizziamo con gli altri e desideriamo quello che i nostri modelli vogliono. Una prova? Prendiamo Sherlock Holmes, di Sir Conan Doyle: l’autore fu costretto a riportare il personaggio in vita dopo le proteste dei lettori, fanatici, molti dei quali s’erano comprati il cappello da caccia dell’investigatore, che non era presente nel testo, ma fu aggiunto dal disegnatore Sidney Page, con guadagno di un suo amico imprenditore. Il cinema, poi, nasce già brandizzato. I fratelli Lumiere in Sunlight (1896) mostrano lavandaie che usano l’omonimo sapone e negli Usa Cripple Creek Bar
Room Scene (1899) di James H. White, primo film
A sinistra, la scena de La regina d’Africa (film del 1951) in cui l’attrice protagonista Katharine Hepburn versa in acqua gin di marca. Nella foto accanto, il pallone che Tom Hanks trasforma in un compagno di naufragio in Cast Away (2000)
western, ha la scritta Ballantine’s dietro il bancone. Il sonoro ingolosisce le aziende: ne I figli del deserto (1934) Stan Laurel ed Oliver Hardy chiedono una Coca-Cola, mentre in Come sposare un milionario (1953) Marylin è vestita di rosso metallico, come una lattina. I divi mettono il turbo al fenomeno, che in alcuni casi è pubblicità occulta, e nociva (si pensi al fumo). A Hollywood bacco e tabacco regnano sovrani: il Jack Daniel’s per Joan Crowford in Il romanzo di Mildred (1939) e il Gordon’s Gin per Khatarine Hepburn in La regina d’Africa. Marchi come Lucky Strike hanno a busta paga star come Gary Cooper, Clark Gable, Myrna Loy, Spencer Tracy… PER ALCUNI FILM, come la saga di James Bond, il potenziale narrativo della merce e il potenziale commerciale della storia vanno a nozze. Il rinfresco è a base di Martini, ovvio, anche se nel 2012 Daniel Craig beve una prosaica Heineken; nel 2015, addirittura, una frase sull’orologio Rolex finisce dentro uno scambio di battute. Il punto più alto del product placement, almeno sul piano delle gerarchie narrative, fu toccato dieci anni prima: in Cast Away (2001) di Robert Zemeckis il marchio Wilson, che compare sul pallone da pallavolo, diventa il nome dell’amico immaginario del naufrago Tom Hanks.
Il format che meglio posiziona un marchio dentro una storia è la fiction televisiva e sul web. È più
facile immergersi dentro ciò che è seriale; fidelizza, crea immedesimazione e condivisione. C’è persino un surplus di desiderio mimetico, come dimostrano le costolette di House of Cards ( specialità del
Freddy’s BBQ Joint) e le ali di pollo di Breaking Bad (preparate a Los
Pollos Hermanos), tutti falsi brand che Netflix ha trasformato in realtà, con negozi temporanei per lanciare le nuove stagioni delle due serie. Un capolavoro di prodotto piazzato sono le birre Lone Star nella prima stagione di True detective. Il poliziotto interpretato da Mattew McConaughey parla stappando un’intera cassa di lattine, con lenta compulsione, a più riprese: sembra un gioco psicologico dell’interrogatorio, non uno spot. È la lezione di Edgar Allan Poe, della Lettera rubata, uno dei primi gialli-polizieschi della letteratura mondiale (1845): vuoi nascondere qualcosa? Mettila in un luogo così in vista che chi cercasse di scovarla, indagando nei luoghi più segreti, non la troverebbe (quasi) mai. E comunque, potrai sempre dire di non averla nascosta.
In alto a sinistra, Daniel Craig-James Bond: nei film di 007, oltre alla mitica Aston Martin, entrano anche in scena liquori e birre. A destra, Matthew McConaughey in True Detective (2014) con birre in vista. Qui sopra, Sunlight dei fratelli Lumière (1896)