Facebook può fare di più?
Cosa stanno facendo i colossi americani del web per combattere l'odio e la violenza online? Non abbastanza. Soprattutto in Europa. Eppure è nel loro interesse (economico, politico, morale) intervenire per riportare la civiltà in Rete
«Chiunque difenda gli ebrei dalle critiche soffre di una malattia mentale dovuta al lavaggio del cervello cui è costantemente sottoposto». Patrick D., agosto 2017. «Le puttane non si vergognano perché non hanno famiglia ma soldi. Se ci fosse una rivoluzione tu saresti la prima a crepare… grandissima puttana». Francesco T., agosto 2017. Due frasi gridate, non a gran voce e sfidando gli interlocutori con gli occhi, ma picchiettando furiosamente sulla tastiera.
COS’HANNO IN COMUNE,
a parte la violenza? Sono state pubblicate online dai loro schiumanti firmatari (con nome e cognome), rispettivamente su Twitter e su Facebook. E sono state utilizzate per spiegare dov’è arrivato l’odio in Rete e di cosa sono capaci quelli che abbiamo chiamato “i bruti digitali”. A denunciare, nel primo caso, è stato @YesYoureRacist, un account presente su Twitter dal 2012, impegnato dallo scorso
12 agosto – giorno degli scontri a Charlottesville, in Virginia – a scoprire l’identità dei suprematisti bianchi protagonisti delle violenze. Il secondo messaggio è stato portato all’attenzione pubblica italiana dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha lanciato un hashtag esplicito: #adessobasta. Il suo post su Facebook ha superato i 7 milioni di visualizzazioni, un quarto degli utenti italiani.
E I GRANDI SOCIAL NETWORK,
dove vengono pubblicati questi contenuti osceni, cosa stanno facendo? Continueranno a muoversi in equilibrio sul confine fra necessità d’intervento e tutela della libertà d’espressione? Ascolteranno i sistemi autoritari (come la Cina)? Andranno incontro alle richieste delle democrazie (come l’Italia e i Paesi dell’Unione Europea)?
I RECENTI FATTI
di Charlottesville sono rivelatori: la reazione delle piattaforme online è stata pressoché immediata. GoDaddy, che ospita i portali, ha imposto al sito suprematista The
Daily Stormer di trovarsi un altro provider nel giro di 24 ore. Google si è allineata, inibendogli la registrazione. Twitter ha provveduto a chiudere l’account, mentre Cloudflare si è adoperata affinché non fosse più assicurata la protezione informatica. Il colosso Facebook? Ha rimosso il profilo di Chris Cantwell, un suprematista bianco ritratto in un documentario di Vice, e ha scovato altri account e pagine da chiudere. Non solo: Apple e PayPal hanno tagliato il cordone vitale di questi gruppi: quello che porta ai fondi e alle transazioni di denaro online.
A QUESTO PUNTO,
una domanda è ovvia. Perché hanno rimosso queste pagine e questi account? Perché proprio adesso e non settimane o mesi prima? «Non c’è posto per l’odio nella nostra comunità», ha spiegato il fondatore e amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg, sul suo profilo, in uno dei sempre più frequenti interventi sul tema. Quando succede in America e c’è di mezzo il razzismo, certo. E in tutto il resto del mondo, su altri temi complessi e/o drammatici?
IN ITALIA, PER ESEMPIO,
esistono 3.600 pagine apertamente neofasciste, di cui 500 classificabili come “apologia del fascismo”. Un reato, nel nostro Paese. Ma secondo i social network con base negli Usa, come ha spiegato su 7 Stefania Chiale (“L’occhio della Rete”, 18 maggio), non basta la segnalazione dell’utente: occorre la decisione di un’autorità italiana perché venga rimosso un contenuto che non viola apertamente gli standard di Facebook. E spesso, come ha appena dimostrato Luigi Ferrarella, neppure questo basta. Nel corso delle indagini, infatti, le autorità giudiziarie italiane non possono prescindere dalle informazioni fornite dai colossi del web. Che spesso non arrivano.
NEI PROSSIMI DODICI MESI
Facebook assumerà tremila persone in tutto il mondo per vigilare su quanto viene pubblicato, consapevole che il solo occhio tecnologico, anche se guidato da un’intelligenza artificiale in costante evoluzione, non è sufficiente. Il rischio non è solo quello di mancare contenuti minacciosi o pericolosi. C’è anche la possibilità che un algoritmo rimuova - è già successo - esternazioni ironiche, scambiandole per dichiarazioni violente.
IN GIOCO,
oltre all’ambiente in cui trascorriamo (gran) parte delle nostre giornate, c’è il modello sui cui le piattaforme si basano: la circolazione di contenuti interessanti e appetibili, in grado di generare visualizzazioni, condivisioni e traffico. Ecco perché agire, bene e in fretta, è nell’interesse di Facebook, Google & Co. Interesse economico, interesse politico, interesse sociale, interesse giudiziario.
«NON SAREMO SEMPRE PERFETTI»
, ha riconosciuto Mark Zuckerberg in un recentissimo post, assicurando il suo continuo impegno. Verrebbe da dire: nessuno vi chiede d’essere perfetti. Ci basta sapere che, soprattutto quando si tratta dell’Europa, non vi giriate dall’altra parte.