Giochiamo a testa o cuore
Uno non ha paura di mostrarsi fragile, si confida con la fidanzata, non s'identifica con il lavoro. L’altro? L’opposto. Itinerario tra desideri e bisogni di una generazione di quarantenni attraverso le parole di due illustri rappresentanti: il cantautore
QUARANTENNI ENTRAMBI. Uno – Paolo Cognetti, scrittore, vincitore del Premio Strega con Le otto montagne (Einaudi) – uomo del Nord, cresciuto a Milano prima di prendere la strada che lo ha portato sulle Alpi, in Val d’Ayas, dove vive per metà dell’anno. L’altro – Dario Brunori, cantautore portabandiera della musica indie italiana, vincitore del Premio Tenco con LaVerità – uomo del Sud, nato a Cosenza, studi di Economia a Siena e uno pseudonimo, Brunori Sas, ironicamente mutuato dalla piccola impresa di famiglia. Ospiti al Tempo delle Donne, diversi fra loro, eppure simili nella distanza che li separa dalla generazione dei loro padri e nella ricerca di un nuovo modo di essere uomini, senza rete di sicurezza.
Quando ti capita qualcosa, di bello o di brutto, qual è la prima persona alla quale vuoi raccontarlo?
DI DANIELA MONTI E ANDREA LAFFARANCHI
Dario Brunori. «A Simona, la mia compagna di vita, di merende e di palcoscenico. E a mia madre, se no quando legge l’intervista si ingelosisce, essendo Simo pur sempre un’estranea rispetto alla famiglia».
Paolo Cognetti. «Di bello, a Federica. Stiamo insieme da cinque anni e credo che sia la persona che mi conosce meglio al mondo. Quando mi capita qualcosa di brutto tendo a non raccontarlo per niente, finché lei non comincia a chiedermi che cosa non va. Certe volte mi viene più naturale parlarne con il mio amico Remigio».
Che cos’è la fragilità per un uomo? Più una liberazione dalle catene del dover-essere-maschi o ancora una vergogna, un’ombra sulla propria virilità?
DB «Io l’ho sempre vissuta come una liberazione dagli stereotipi maschili imposti dal contesto in cui sono cresciuto. Sin da piccolo ho sofferto il dover essere “maschio” nello sport, nelle relazioni con gli altri, nelle scelte estetiche o negli oggetti da desiderare. In particolare, non sono mai stato competitivo: la competizione mi ha sempre messo un’ansia indicibile, un morso allo stomaco che ha accompagnato tutti i tornei scolastici, le corse campestri e i famigerati giochi della gioventù. Per me quando il gioco si fa duro è il momento di abbandonarlo. E poi, se ci pensi, “fragile” si scrive sulle scatole che contengono le cose più delicate e preziose: palesarlo è più un vanto che una vergogna».
PC «Per me è un problema mostrare debolezze, va contro la mia educazione. Però vorrei capire che cosa intendiamo per fragilità maschile: a me la peggiore sembra quella degli uomini gelosi e violenti. Rispetto a questo, mettersi a piangere è davvero cosa da poco».
E che cos’è la forza? Com’è un uomo forte oggi?
DB «Per me la forza è vivere la propria esistenza con ironia. Gli uomini forti sono quelli che riescono a ridere delle proprie debolezze e a non identificarsi troppo con un ruolo o un personaggio. Io non sempre ci riesco, ma ho la grande fortuna di avere intorno un bel po’ di persone che mi vogliono bene e che mi fanno da specchio: quando tendo a prendermi troppo sul serio, sono loro, consapevolmente o meno, a mostrarmene tutto il lato ridicolo».
PC «Un uomo saggio, direi. Nella saggezza c’è il coraggio delle scelte difficili ma anche l’equilibrio interiore, il saper stare da soli, la forza tranquilla di uno che va per la propria strada».
“Io sono innanzitutto il mio lavoro”. È vero per te? Fa più male un fallimento professionale o un tradimento in amore?
DB «“Io sono anzitutto il mio lavoro” non lo direi neanche sotto tortura, ma ci tengo a fare bene ciò che amo. Sono umano, per cui il fallimento, in senso lato, mi spaventa, benché debba ammettere che tutto ciò che di buono ho costruito nella vita è frutto proprio di tanti piccoli fallimenti. Negli anni ho imparato che più che concentrarmi sull’inevitabile caduta, devo rialzarmi il più rapidamente possibile, magari senza troppe recriminazioni».
PC «Sì, io sono il mio lavoro. Volevo fare lo scrittore e la grande vittoria della mia vita è essere diventato quello che sognavo. Però un fallimento professionale fa male subito, poi spinge a rimettersi in moto con grande energia e un certo senso di rivalsa; un tradimento in amore fa malissimo e basta».
Quanto ti importa del tuo corpo: essere in forma è un pensiero fastidioso, un obiettivo costante, una vaga preoccupazione?
DB «La forma fisica è un obiettivo costante per me, ci lavoro duramente e in maniera quotidiana e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ogni mattina, appena mi sveglio, tocco la punta della pantofole un centinaio di volte. Poi mi alzo dal letto, me le infilo e vado subito in cucina a rosolare due fette di pancetta».
PC «Un obiettivo costante. Sono sempre stato un atleta, ora vivo in montagna e mi alleno andando a camminare. I mille metri di dislivello sono la misura per vedere come sto. Non credo sia vanità (forse in parte, anche se evito il più possibile lo specchio): la felicità del corpo si porta dietro quella dello spirito; io sono felice quando le mie gambe viaggiano veloci».
Che cosa ti mette ansia? E quando succede che cosa fai per superarla?
DB «Mi mette ansia il giudizio altrui: vorrei piacere a tutti, anche se so che è un desiderio infantile e controproducente. E poi anche l’idea che qualcuno possa stare male a causa di un mio comportamento. Tendo a evitare lo scontro e mi preoccupo molto che in ogni situazione tutti siano felici: può sembrare un comportamento lodevole, ma per me non è così. Tutto ciò che è vitale in questo pianeta nasce dall’attrito e volerlo tenere sotto controllo è come preferire una pianta di plastica a una rosa selvatica».
PC «Nel lavoro, l’ansia è la fase peggiore della scrittura. Mi succede verso la metà di una storia, o forse un po’ prima: sembra che quello che ho scritto non valga niente e che non arriverò mai in fondo, e andare avanti diventa difficilissimo. Mi metto a riscrivere, cancello, rielaboro, complico le cose, mi accorgo che in realtà è una fase di involuzione in cui non combino niente di buono, non ci dormo la notte, mi viene il mal di pancia. Per superarla non c’è che la perseveranza. Fiducia, disciplina, e qualche volta anche un po’ di follia. Ho provato un’altra forma d’ansia quando ho cominciato a sentire che una donna non mi amava più. Lì non c’è niente da fare, solo
levarsi di torno il più in fretta possibile».
Chi sono stati i tuoi maestri/maestre di vita? (libri, film, musica, personaggi reali). Cinque nomi, o di più…
DB «Quelli reali, persone che ho incontrato nel corso della mia vita, preferisco non dirli, perché è bello che siano tali senza che loro lo sappiano. Per il resto sparo i primi che mi vengono, in ordine sparso, ma sono sicuro che tra qualche giorno me ne verrà in mente uno fondamentale e mi fustigherò per non averlo citato: Pirandello, Hesse, Prince, Allen, Frida Kalho, Battiato, Pasolini, Gurdjieff, Troisi, Wilde, Merini, Battisti, Hicks,
« Tendo a evitare lo scontro e mi preoccupo che in ogni situazione tutti siano felici. Può sembrare un comportamento lodevole, ma per me non è così: tutto ciò che è vitale nasce dall’attrito » Dario Brunori Tony Curtis e Jack Lemmon travestiti da donna in A qualcuno piace caldo (1959). Dietro, seminascosta, Marilyn Monroe
Freak Antoni, Calvino, Beck, Totò, Tarantino, Foster Wallace, Nina Simone, Cobain, Frassica, Hack, Malick. Sono più di cinque e potrei andare ancora avanti...».
PC «Libri e scrittori sono stati d’ispirazione, però non mi sentirei di chiamarli maestri di vita (non li ho conosciuti, non ci ho potuto litigare, non li ho visti arrabbiarsi o darmi il cattivo esempio, e loro non hanno conosciuto me e non mi hanno visto piangere e fallire: sono passaggi necessari tra maestro e allievo). A dieci anni ho trovato un maestro nella mia prima guida alpina, Renzo, che mi ha insegnato ad arrampicare su roccia e ghiaccio e a non aver paura della montagna. A venti Marina, che mi ha trasmesso l’amore per Milano, la necessità della politica, l’onestà dello sguardo nella scrittura. A trenta Dino, maestro di vino e anarchia. Di tutti loro ho scritto prima o poi nei miei racconti. Il maestro dei quaranta non l’ho ancora incontrato, spero tanto che ci sarà, non voglio smettere di imparare».
Quanto è importante stare “solo fra uomini”? Tu oggi hai un migliore amico o un gruppo di amici come a scuola?
DB «Con una band formata per lo più da maschietti, direi che stare solo fra uomini è parte integrante della mia esistenza, soprattutto in tour. È piacevole, perché si tratta di maschi che hanno frequentato il conservatorio e quindi sono in grado di passare con scioltezza da discorsi da caserma a disquisizioni sulle mutazioni del diapason e il destino della musica dodecafonica. Nel corso della mia esistenza ho collezionato un bel po’ di migliori amici, non solo maschi, con personalità molto differenti, che ancora oggi sono fonte di confronto, di collaborazione e soprattutto di grasse risate. Per me ridere con le persone che amo è uno dei motivi per cui vale la pena vivere, e non ne faccio una questione di genere».
PC «La banda non mi è mai interessata, o non mi ci sono mai trovato bene: il gruppo di uomini, il cameratismo, la goliardia... Non ho fatto il militare, peraltro, né uno sport di squadra. Ho un migliore amico in montagna e stare da solo con lui è importante, è l’unica persona con cui parlo di certi argomenti. Quali? Mi spiego: Federica è l’unica con cui mi confido, ma se le cose tra noi non vanno bene, non è con lei che posso parlarne. Se ho delle paure, se sto male, se il mio star male di quel momento condiziona il nostro rapporto (e lo condiziona per forza), mi sento più tranquillo a par- larne con il mio amico. So che con lui non c’è pericolo di complicare la situazione, mi sento accolto e capito».
Essere/diventare padre. Era/è un desiderio? O fa troppa paura? O in fondo non è fondamentale?
DB «Dipende dai giorni. Ieri, per esempio, ne avevo voglia, oggi che sono reduce da una giornata ad alto tasso infantile, un po’ meno. Amo i bambini e penso che potrei essere un buon padre, quanto meno divertente, ma so di essere anche molto egoista e temo che una scelta del genere possa influenzare il mio stile di vita attuale. Mi dico che con un figlio non potrei più viaggiare all’estero, vedere concerti, visitare un museo o una mostra...Tutte cose che comunque non faccio, perché sto sempre a casa sul divano; però l’idea di non poterlo più fare mi attanaglia lo stesso. Comunque è vero quel che dicono tutti: se ci pensi troppo alla fine non li fai».
PC «Non sono padre e non è un mio desiderio. Non per paura: è che ho tante idee in mente e progetti a cui dedicarmi; voglio avere il tempo per frequentare persone con cui collaborare (per libri, viaggi, festival, rifugi in
A destra, Shrek e Fiona in Shrek 2 (2004): un esempio di coppia di innamorati e amici
“Vado in congedo paternità, stacco”: che effetto farebbe nei mondi maschili e femminili che attraversi? Positivo (che persona sensibile e moderna) o negativo (questo non avrà mai davvero successo)? DB «Per me più che positivo: il successo lavorativo montagna), e vedo che chi ha figli trascorre anni in cui si ritira, necessariamente, nel privato. Per me quegli anni sono troppo preziosi, sento di non avere tempo. Del resto di figli è pieno il mondo, a questa terra sovrappopolata non servono i miei».
«Non sono padre e non è un mio desiderio diventarlo. Non per paura: è che ho tante idee in mente, e progetti a cui dedicarmi. Del resto di figli è pieno il mondo, a questa terra sovrappopolata non servono i miei» Paolo Cognetti
non è il metro con cui giudico la realizzazione di una persona e non mi farebbe alcun effetto sentirlo pronunciare da un amico. Tra l’altro mi sembra paradossale che avere un figlio possa rappresentare un handicap per la propria carriera lavorativa, anche se sono consapevole che spesso sia proprio così. Ma questo rientra nelle storture di un sistema economico che non mette in cima alle proprie priorità l’essere umano. Tra le persone che frequento penso che un’affermazione del genere sarebbe accolta in maniera pacifica, ma si tratta di un campione demografico poco rappresentativo». PC «Uno scrittore non stacca dalla scrittura, c’è poco da fare. Per me il problema non si pone: se anche avessi un figlio, credo che dopo due giorni sarei lì al tavolino a scrivere di com’è stato vederlo nascere».
Abbracciare qualcuno/a di slancio, gesto di puro affetto: l’ultima volta che lo hai fatto?
DB «Stamattina. Sono un abbracciatore e baciatore compulsivo, un po’ perché dove sono cresciuto lo insegnano sin dalla tenera età a tutti i bambini, indipendente-
mente dal genere, un po’ perché l’abbraccio è spesso rivelatore dell’animo di chi hai di fronte, molto più delle chiacchiere e del salotto».
PC «Lo faccio spesso, con le amiche. Abbracciare un maschio è più raro. Di solito sono io che mi lancio: l’altro è un po’ imbarazzato, poi se tutto va bene si lascia andare. Ma una volta un amico mi ha detto: «Tu tocchi un po’ troppo » . Ci sono rimasto male, non l’ho più sfiorato».
Domani mattina ti svegli e sei donna. Ti sembra una buona o una cattiva notizia per te? Libera spiegazione della risposta A o B.
DB «“Non potrei mai essere una donna, starei tutto il giorno a toccarmi le tette” diceva il buon Steve Martin, ed è la prima cosa che mi viene in mente di fronte a questa domanda. La seconda, da cantautore serio ed elegante quale io sono, è che sarebbe una notizia splendida perché sarei finalmente consapevole delle differenze reali fra maschi e femmine, non solo da un punto di vista intellettuale (punto di vista giocoforza limitato), ma anche sul piano emotivo e per così dire carnale. Volendo equilibrare la triviale citazione iniziale, direi che svegliandomi nel corpo di una donna potrei forse scoprire “l’uno al di sopra del bene del male”, della luce e del buio, del maschile e del femminle, superando finalmente la condizione di dualità in cui versa questa nostra esistenza terrena».
PC «Cattiva notizia. Avrei voluto essere donna a vent’anni e avrei voluto essere donna a trenta. Se me lo avessero chiesto allora, avrei risposto sì con sincero entusiasmo (il potere assoluto delle venticinquenni sugli uomini è qualcosa che io non conoscerò mai). A quaranta comincio a trovare divertente essere uomo: posso godermela adesso che ci sono arrivato?».
Se ti guardi intorno, ti sembra che siano cambiati più
gli uomini o le donne rispetto alla loro generazione precedente? Chi sta facendo il salto più lungo?
DB «Spesso ho la sensazione che i cambiamenti siano per lo più formali e non sostanziali. Ma a volte la forma è sostanza e forse è necessario passare per cambiamenti non completamente interiorizzati e consapevoli per poter davvero cambiare le cose. Proprio l’altra sera stavo riguardando Comizi d’amore, il documentario di Pier Paolo Pasolini, e la cosa che mi stupiva di più di alcune delle sue interviste era proprio la differenza fra le giovani donne, che sembravano possedere una visione molte moderna e matura, e i loro coetanei maschi abbastanza sempliciotti e per lo più tradizionalisti. È un’impressione che ho sempre avuto anche osservando i miei parenti più adulti. Per questo, anche se sono consapevole dei limiti di una generalizzazione così spinta, direi che forse il salto più lungo è quello in cui sono impegnati gli uomini: si trovano a dover fare i conti con riflessioni e dinamiche di relazione che i loro padri non hanno quasi mai dovuto affrontare. Questo, al di là dei nostri lamenti da bar, è assolutamente un bene».
PC «Le donne rischiano di fare un salto all’indietro. Se la generazione precedente ha conquistato una coscien- za e dei diritti, a me pare che le mie coetanee abbiano il dovere di andare avanti: ma non so se lo stanno facendo, vedo un arretramento in molti ambiti (senso di responsabilità, rapporto uomo-donna, uso della seduzione, concetto di casalinga). Mi sembra invece che gli uomini, in questo, non abbiano una generazione precedente a cui rispondere: è tutto ancora da fare».
Se le donne cambiano si pensa che stiano “andando avanti”, che siano coraggiose. Se gli uomini cambiano si pensa che siano “in crisi”, che stiano indietreggiando rispetto alla prima linea. Essere uomini è diventato più difficile che essere donne?
DB «L’uomo è in crisi perché, almeno nella forma, non ha più i privilegi che per diritto aveva in passato per il solo fatto di essere maschio. Tutto qui. Non mi pare proprio che questo significhi indietreggiare, se non in un’ottica meramente egoistica. Poi, nei fatti, alcune dinamiche sono dure a morire, e io stesso spesso mi trovo a pensare o a comportarmi come mio padre o mio nonno. Ma non ne faccio di certo un vanto, anzi».
PC «Essere donne continua a essere svantaggioso, nella vita pubblica e privata. I segni di questa disuguaglianza sono ovunque. Mi vergognerei a sostenere che stare al mondo da uomini è più difficile».
Meglio un solo amore lungo una vita o più storie d’amore belle?
DB «Vivo con la stessa persona da quasi vent’anni: o è amore o è il sequestro di persona più lungo della storia».
PC «Dette così sembrano entrambe due gran belle vite! Il problema sono le storie d’amore brutte o le vite senza amore».
Di che marca è il ferro da stiro in casa tua?
DB «Un attimo che chiedo a Simona». PC «Non ho un ferro da stiro. Se lo avessi, non saprei di che marca è. Faccio fatica a ricordare quella della mia macchina, non ho idea di quella dei miei pantaloni...».
Nella foto, da sinistra, Zach Galifianakis, Ed Helms e Bradley Cooper: trio di amici inseparabili nel film Una notte da leoni (2009)