QUELLI DELLO SCALONE DI VIA SOLFERINO 28
Max David – E la cantante nera del night mise in salvo il grande inviato
dei corrispondenti di guerra – vite degne di entrare nei romanzi di Salgari – episodi destinati a proiettarli nella leggenda. Scoop, imprese impossibili, atti di coraggio; pericoli, momenti in cui la morte ti guarda dritta negli occhi, ma poi si volta dall’altra parte, rimandando l’appuntamento. A Max David accadde almeno due volte. L’episodio più rischioso accadde nel dopoguerra, quando David era in Egitto per raccontare ai lettori del Corriere
della Sera le vicende del Paese allora retto da re Farouk - dapprima insediato e poi deposto dai partiti rivoluzionari. Si respirava in quei giorni un’aria di ostilità nei confronti degli occidentali, riflesso del fatto che gli inglesi non intendevano cedere il controllo del Canale di Suez. David si trovava all’hotel Shepheard de Il Cairo con altri giornalisti stranieri. Aveva appena mandato al giornale un servizio su un attacco britannico a una caserma egiziana, quando l’albergo fu circondato dalla folla
inferocita e dato alle fiamme. Di lui non si seppe
più niente. Tanto che il Corriere del giorno dopo – era il 27 gennaio 1952 – pubblicò in prima pagina una nota nella quale l’Ambasciata italiana ne comunicava la sparizione. Si temette il peggio e, come avrebbe raccontato Gaetano Afeltra, «nei corridoi del Corriere i colleghi ne parlavano con le lacrime agli occhi». Si seppe poi che David era nella propria stanza, seduto alla macchina da scrivere. «Scrivendo le ore passano presto e ci si accorge di niente», avrebbe detto. «Dopo non so quanto tempo, sentii odore di bruciato e staccai la presa della stufetta elettrica, aprii la
porta, il corridoio era pieno di fumo». Muovendosi alla cieca riuscì a scendere in cortile, dove c’erano altri ospiti terrorizzati dalle fiamme che crescevano e dalla folla urlante che impediva loro di uscire. David indossava una giacca di tweed a quadretti che gli dava un’aria pericolosamente inglese. Fu soltanto grazie alla cantante nera del night, cui si mise al braccio, se riuscì a oltrepassare il cancello e a mettersi in salvo.
IL SECONDO EPISODIO era accaduto nel 1938, durante la Guerra civile spagnola. David era con Guido Piovene. Improvvisamente si scatenò contro
di loro il fuoco dei cecchini. «A ogni colpo, spruzzi di terra rossa saltavano intorno a noi. Cominciammo a strisciare sul ventre e ce la cavammo bene». Massimo “Max” David è stato uno dei grandi inviati della storia del giornalismo del Novecento, non solo italiano. Uno di quei corrispondenti di guerra che, diceva ancora Afeltra, nutrivano segretamente la speranza di morire sul campo di battaglia, come era successo a Sandro Sandri, inviato per La Stampa, che era spirato tra le braccia di Luigi Barzini durante un attacco giapponese alla cannoniera americana USS Panay. Giornalisti per i quali l’imperativo era andare, vedere e raccontare. La foto sullo Scalone del Corriere della Sera, dove entrò per volere di Guglielmo Emanuel nel 1949 rimanendovi per 24 anni, ritrae un Max David vestito elegantemente mentre sta scrivendo un articolo lontano da fiamme e spari: proprio lui, al quale lo stesso Piovene aveva insegnato a scrivere a macchina mentre l’automobile correva sulle strade impervie, così da arrivare con il pezzo già pronto da spedire.
DAVID ERA NATO LA NOTTE DI NATALE del 1908 a Cervia (Ravenna), da una famiglia benestante. Refrattario a diventare farmacista come suo padre e suo nonno, aveva avuto fin da subito la
passione per l’avventura. Trasferitosi a Milano all’inizio degli anni Trenta, venne assunto come redattore dal quotidiano Il Secolo/La Sera - che un anno dopo, approfittando del fatto che si trovava in Africa al seguito di una spedizione scientifica e di caccia, lo nominò sul campo corrispondente di guerra. Con quel primo pezzo spedito da Mogadiscio inizia una carriera che lo porterà su tutti i fronti del mondo. Spinto dal fascino per l’avventura, dalla curiosità, ma anche da una fortissima vocazione verso il mestiere giornalistico (che considera una missione), Max David racconterà i conflitti pronto a consumarsi le scarpe pur di vedere e vivere quello che scrive. Ricorrendo anche a una prosa romanzata per eludere la censura. Ma se Max David, scomparso per infarto nel 1980, ci ha lasciato una vita che si legge come un romanzo, storico e umano; cronache che non si fermano alle operazioni belliche, ma svelano popoli, Paesi e culture; e libri tra cui Volapié, su tori e corride, che vinse il premio Bagutta, la sua storia testimonia anche altro: il lato avventuroso del giornalismo e la rivalità e l’amicizia tra colleghi – era lui che nel deserto africano regolava con le forbicine i baffi a Enrico Emanuelli - e il difficile ruolo del cronista di regime che «non poteva sapere come le cose fossero andate prima del fascismo». Ma soprattutto ha insegnato a mettere sempre in primo piano l’uomo. Come quando incontra Giovanni D’Anzi e nonostante «i calli del mestiere» si sente « un po’ impacciato». O quando, nel 1969, mandato a Cape Canaveral per il Corriere di Spadolini, racconta lo sbarco sulla luna attraverso le vite degli astronauti. E mostra il lato privato di Armstrong descrivendone la casa e il figlio di 11 anni, il quale, dopo aver saputo che lassù suo padre era andato a dormire, solleva la bandierina americana verso la luna e dice «Buona notte, papà».