POTERE & CAPITALISMO
La repubblica dei C.E.O.
ANCORA PIÙ DEGLI AVVERSARI DEMOCRATICI,
più degli odiati media. La vera spina nel fianco del permalosissimo Donald Trump è quell’élite che non l’ha mai accettato, considerandolo una star da reality, un palazzinaro spinto dai soldi di papà con alle spalle una scia di fallimenti: la Corporate America. Un vero potere a sé, non solo economico, ma ormai capace di orientare e influenzare il discorso pubblico, come si è visto dopo le violenze dei suprematisti bianchi a Charlottesville. Ha cominciato Kenneth Frazier, amministratore delegato della compagnia farmaceutica Merck e discendente di schiavi. Davanti alle parole ambivalenti di Trump sui neonazisti, ha lasciato il gruppo di consulenza governativa in cui sedeva come gesto contro “l’intolleranza e l’estremismo”, e ha innescato non solo la fuga dei business leader dalla Casa Bianca, ma una gara a prendere posizione contro il presidente. Da Doug McMillon di Walmart a Jamie Dimon di JP Morgan, pochi i big che si sono sottratti. È intervenuto persino James Murdoch, figlio del fondatore di Fox e sostenitore di Trump. Secondo il Washington Post, quello che è successo è stato un punto di svolta nell’evoluzione del capitalismo americano. «L’attenzione a quanto accadeva a Washington», ci conferma Richard Sylla della New York University Stern School of Business, «non è una cosa nuova, ma prima riguardava la tutela dei propri interessi. Charlottesville invece non è una faccenda di business, ha a che vedere con gli ideali americani». Non si tratta solo di Trump e di Charlottesville. Dalle politiche per l’uguaglianza di genere e l’inclusione delle minoranze a quelle sul cambiamento climatico, la voce della Corporate America, bersaglio di milioni di cortei dagli anni Sessanta fino a oggi, non solo si fa sentire fuori dai propri ambiti, ma è diventata per molti la voce della ragione. Non che le corporation siano d’un tratto “buone”, del resto di per sé non sono buoni neanche Stati o governi. «Prendiamo le politiche di assunzione» ci spiega Richard Parker, economista della Harvard Kennedy School, «sarebbe economicamente sbagliato e irrazionale per queste compagnie ignorare il 60 o 70 per cento della popolazione, dove ci sono sicuramente buoni manager e ottimi lavoratori. Le scelte delle grandi multinazionali non sono guidate, almeno non solo, da un’idea progressista di eguaglianza, ma da una necessità economica, quella di attingere a tutte le risorse». Senza contare che chi si dimostra più sensibile ai temi della parità viene premiato dai consumatori. Perché anche se Trump con il suo messaggio populista e nazionalista ha vinto le elezioni, «queste grandi aziende» secondo Sylla, «sono uno specchio dell’America di oggi più di quanto
«Le scelte delle grandi multinazionali non sono guidate, almeno non solo, da un’idea progressista di eguaglianza, ma da una necessità economica, quella di attingere a tutte le risorse»
non lo sia il presidente». E così, nel vuoto lasciato da una politica sempre più disfunzionale, ma anche dalla religione organizzata «che storicamente è stata una voce morale nella società, ma oggi è più debole che mai», dice Parker, «la legittimazione dei grandi manager aumenta perché è nelle loro aziende che eguaglianza e opportunità vengono messe alla prova. È lì che è impiegata metà della forza lavoro del Paese». Parlando qualche giorno fa con iI New York Times, Tim Cook, amministratore delegato di Apple, ha praticamente dettato il manifesto del fronte dei Ceo: «Abbiamo la responsabilità morale di contribuire a questo Paese, di aiutare a far crescere l’economia e i posti di lavoro…per una serie di ragioni il governo non lavora più alla velocità di un tempo. E quindi sì, tocca non solo alle imprese ma a diverse aree della società farsi avanti». Sono state le corporation a pensare ai diritti dei partner degli impiegati gay prima che ci arrivasse la legge, e amministratori come Randall Stephenson di At&T parlano di razzismo e di Black lives matter con meno giravolte di un politico («Le vite nere contano», ha detto, «non dobbiamo dire che tutte le vite contano per giustificare il fatto che ignoriamo il reale bisogno di cambiamento»). Secondo Sylla, «ogni Paese è un work in progress e noi americani che abbiamo storie e origini così diverse ci chiediamo spesso cosa ci tenga insieme. La risposta sono i nostri documenti fondamentali, la costituzione e la dichiarazione di indipendenza nella quale Jefferson, che pure era un possessore di schiavi, dice che tutti gli uomini sono creati uguali. Abbiamo una lunga storia di razzismo e ineguaglianza e stiamo cercando di mettercela alle spalle per sempre».
ED È QUESTA LA CULTURA DEL BUSINESS
oggi, impregnata di valori progressisti, o semplicemente americani. «Stiamo combattendo per l’idealismo
dell’America» ha detto al New York Times Howard D. Schultz, presidente di Starbucks. Parole molto simili a quelle usate dalla amministratrice delegata di General Motors, Mary T. Barra, che ha fatto appello all’America perché «rafforzi i valori e gli ideali che ci uniscono: tolleranza, inclusione e diversità». Non più quindi il vecchio adagio «quello che va bene per la General Motors va bene per il Paese», ma viceversa, quello che va bene per il Paese va bene per le corporation. Eppure, la rivolta dei leader d’impresa non deve farci dimenticare che la loro idea di parità è più culturale che economica, e questi nomi sono anche la faccia delle enormi diseguaglianze che lacerano il tessuto sociale degli Stati Uniti. Per non dire del fatto che quando si tratterà di fare lobbying per i tagli fiscali o per la deregulation sapranno come riannodare i legami con la Casa Bianca (dove come consigliere economico di Trump resiste, non si sa per quanto, l’ex Goldman Gary Cohn). Ma soprattutto: sicuri che l’idea di un discorso pubblico modellato da compagnie che in quel dibattito hanno un interesse economico ci lasci indifferenti? Prendiamo l’intelligenza artificiale: nonostante le gigantesche conseguenze sull’occupazione, lo scontro tra catastrofisti e tecno-ottimisti non scorre tra destra e sinistra, ma tra capi d’azienda come Elon Musk di Tesla e Mark Zuckerberg di Facebook, che dai robot cercheranno comunque di guadagnare. E ancora, è giusto che siano Google e soci a decidere, come è successo sulla scia di Charlottesville, cosa è hate
speech e cosa no, a silenziare questo o quell’altro gruppo sul web? Certo, probabilmente i cittadini si fiderebbero ancora meno se questa autorità “morale” fosse affidata ai politici. «Se gli elettori di destra sono sempre stati scettici nei confronti del governo, l’era Trump ha reso diffidenti anche quelli di sinistra», scherza (ma non troppo) Sylla. Parker non si scandalizza: «È preoccupante che persone come Zuckerberg possano decidere cosa il pubblico deve guardare o leggere o ascoltare, ma ci dimentichiamo che questo è stato vero per i principali editori e dirigenti televisivi per anni e anni. La Fairness doctrine puniva le emittenti che non mantenevano l’imparzialità e questo risultava nell’assenza quasi sempre di voci di destra o di sinistra perché “unfair”, sbilanciate. E i giornali avevano di solito posizioni centriste o di centrodestra per non offendere gli inserzionisti». Detto questo, «lasciare che una sola compagnia controlli oltre l’80 per cento della pubblicità è una ricetta per ogni tipo di abusi, quindi abbiamo bisogno di politiche di antitrust molto più aggressive». Ci fosse ancora la politica, nella repubblica dei C.E.O.