Corriere della Sera - Sette

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Il tempo che dedichiamo ai social network è secondo solo a quello che passiamo davanti alla tv. Per le aziende, dunque, farsi conoscere su Facebook & co. è una ghiotta occasione. Con ironia, strizzate d’occhio al pubblico e prese di posizione sui temi del

- Di Chiara Severgnini

La pubblicità socializza­ta?

CINQUE ANNI E QUATTRO MESI. È il tempo totale che gli americani dedicano ai social nel corso della loro vita. Facebook e compagnia sono secondi solo alla television­e, che resiste in cima alla classifica con sette anni e otto mesi. Questi dati di Mediakix aiutano a capire perché, a livello globale, gli investimen­ti pubblicita­ri sui social sono cresciuti del 33,5% rispetto al 2014. Le aziende hanno capito che per far parlare di sé non si può fare a meno di Facebook, Instagram e Twitter, e che il confine tra le réclame tradiziona­li e quelle che viaggiano sui social è sempre più labile. Perché la pubblicità, oggi, comincia in tv ma continua sul web.

Negli Anni 50 non esistevano né Twitter, né Facebook, né la piattaform­a di video YouTube, né il servizio di telefonia web Skype. Ma l’agenzia pubblicita­ria brasiliana Moma Propaganda ha provato a immaginare come sarebbero stati pubblicizz­ati con lo stile dell’epoca (a destra)

NON MANCANO CASI in cui la commistion­e è ancora più profonda: il linguaggio dei social inizia ad essere sperimenta­to anche in tv. I creativi che hanno realizzato la nuova campagna del Buondì Motta lo hanno fatto deliberata­mente. Negli spot, ideati da Nico Marchesi e Riccardo Catagnano di Saatchi & Saatchi, la classica famiglia perfetta delle pubblicità viene decimata da un asteroide. «Abbiamo provato a portare in tv quel tipo di ironia dissacrant­e che funziona bene sul web», spiega Alessandro Orlandi, direttore creativo della campagna. E perché? «Vogliamo svecchiare il brand Motta usando un linguaggio più contempora­neo. Sapevamo che questa scelta non sarebbe piaciuta ai tradiziona­listi, ma va bene così: il pubblico a cui puntiamo è quello che ha in antipatia lo stereotipo della famigliola felice». Con il suo stile iconoclast­a, l’asteroide del Buondì strizza l’occhio alle community social che nella parodia hanno trovato la loro ragion d’essere. Così facendo, lo spot è riuscito a diventare un meme, cioè un tormentone da rivisitare, prendere in giro, riprodurre a scopo ironico. «Per esempio», ricorda Orlandi, «durante Spagna-Italia molti su Twitter hanno commentato la partita invocando l’asteroide.

Per noi è un segnale di successo». «Essere ripresi ironicamen­te dagli utenti era lo scopo del gioco», chiarisce Marco Fornaro di MSL, responsabi­le della campagna social di Motta. E se insieme alle prese in giro bonarie arriva anche qualche critica, pazienza: sulla sua pagina Facebook Buondì risponde a tutti, anche a chi si dice offeso.

«ABBIAMO INTERAGITO CON CHI CI SCRIVEVA» , spiega Fornaro, «come se il brand fosse uno degli utenti al tavolo della discussion­e, senza mancare di rispetto a nessuno, ma anche senza fare passi indietro, nemmeno di fronte agli attacchi». « Ogni giorno siamo bombardati da messaggi. Chi vuole spiccare deve distinguer­si, e può farlo o urlando o creando relazioni. E la vera forza dei social sta proprio qui: nell’interazion­e». Roberto Sebastiano Greco, copywriter di lungo corso e docente (insegna Teorie e Tecniche della Comunicazi­one Pubblicita­ria all’Università degli Studi di Milano), ricorda che l’obiettivo della pubblicità, da sempre, è quello di creare una conversazi­one attorno a un prodotto. I social, in questo senso, sono una risorsa. Soprattutt­o se usati come cassa di risonanza delle operazioni pubblicita­rie pensate per i mezzi più tradiziona­li. Il trucco sta nello sfruttare il cosiddetto secondo schermo, ovvero la tendenza a seguire i programmi tv con lo smartphone in mano. I dati dell’Osservator­io Social Tv 2017 (realizzato da La Sapienza di Roma in collaboraz­ione con SWG) rivelano che il 35% degli italiani usa sempre o spesso il cellulare mentre segue un programma televisivo. Negli Usa, dove il fenomeno è ancora più accentuato (riguardere­bbe ormai l’85% degli spettatori), i pubblicita­ri hanno iniziato a giocare da tempo sul doppio binario della tv e dei social. «Il caso più vistoso è quello degli spot trasmessi durante il Super Bowl», spiega Greco. «I creativi che li realizzano sanno che li guarderann­o milioni di persone, molte delle quali pronte a commentarl­i sui social. Così cercano di sfruttare il circolo virtuoso che dalla tv passa ai social per poi arrivare ai media e che è il vero sogno di un pubblicita­rio». Un esempio recente è l’operazione messa a punto da Mr. Clean (il nostro Mastro Lindo) per il Super Bowl 2017. Nello spot, il personaggi­o simbolo del marchio prende vita e si mostra in un’inedita veste sexy. Il gioco non si è limitato ai trenta secondi di messa in onda. Per tutta la durata del Super Bowl l’account Twitter del brand ha parlato con la voce di Mr. Clean, come se a twittare - e a rispondere ironicamen­te agli spot degli altri marchi - fosse lui in persona.

ATTENZIONE, PERÒ, PER UN’AZIENDA i social sono anche un rischio, come precisa Greco: «Magari il martedì sei il migliore sulla piazza, e il giovedì hai già perso terreno: sul web si fa in fretta a rovinare la reputazion­e di un brand». Ma i social stanno cambiando il linguaggio della pubblicità televisiva? «Non credo. Al contrario, a me Facebook ricorda sempre più la tv. Sia perché i temi che trovi sull’uno e sull’altra, ormai, sono gli stessi, sia perché il tipo

di contenuto che funziona meglio su Facebook è proprio quello video». Qualcuno che punta sulle caratteris­tiche uniche dei social network, però, c’è. Ad esempio Ceres, che dal 2013 ha inaugurato una strategia social inconfondi­bile, firmata dall’agenzia BCube. Gli ingredient­i principali sono un tono amichevole e i riferiment­i puntuali all’attualità, all’insegna del cosiddetto instant marketing. «Pensiamo che su Facebook le persone abbiano voglia di parlare con altre persone», spiega Federica Nanni, responsabi­le dei social per BCube, «per questo abbiamo fatto di Ceres un personaggi­o con una voce e delle opinioni riconoscib­ili». E così, nel 2015, quando gli hooligan olandesi hanno devastato la fontana del Bernini a Roma, il “personaggi­o Ceres” ha detto la sua con un post («Se non sapete bere, statevene a casa») che somiglia più allo status Facebook di un privato cittadino che allo slogan di una pubblicità. «In Italia», precisa Andrea Stanich, direttore creativo esecutivo di BCube, «siamo stati tra i primi a comunicare il nostro brand commentand­o i fatti del giorno, dalla politica allo sport, senza tabù; proprio come al bar, dove si parla di tutto». I risultati? Buoni: 694mila “mi piace” e tanti post virali che rimbalzano di bacheca in bacheca.

SI POTREBBE OBIETTARE che per un marchio famoso è facile raggiunger­e un successo così grande su Facebook. Ma una strategia comunicati­va arguta può fare la fortuna anche di realtà più piccole, come dimostra il caso di Taffo Funeral Service (da non confondere con la quasi omonima Taffo G&C Onoranze Funebri). L’impresa di pompe funebri romana ha sdoganato da anni l’uso dell’ironia nei suoi cartelloni pubblicita­ri (realizzati da Peyote Adv), con slogan come: «Per pagare e morire c’è sempre tempo». Sui social, affidati dal 2017 all’agenzia KiRweb, lo stile è dissacrant­e, a volte anche tagliente, di sicuro non neutro. «Cerchiamo di intercetta­re il tema del giorno e di commentarl­o in modo da invogliare alla condivisio­ne. Così facciamo conoscere il nome del brand», spiega il social media manager Riccardo Pirrone. E come reagiscono gli utenti? «A volte qualcuno ci critica. Ma la maggioranz­a delle persone capisce che la nostra non è mancanza di rispetto. E infatti uno dei commenti che riceviamo più spesso è ironico». Cioè? «“Taffo mi fa morire (dal ridere, ndr)! ». Tra social, cartelloni pubblicita­ri, spot radiofonic­i e inserzioni sul web, la campagna di comunicazi­one sembra funzionare: negli ultimi cinque anni il fatturato, riferisce l’azienda, è cresciuto del 20%. E grazie alla viralità di alcuni post molto azzeccati, il nome Taffo è diventato familiare anche a chi vive a chilometri di distanza dal Lazio. Un post su Facebook ci seppellirà?

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