CHE FINE FARÀ LA SCOZIA
I kilt con i colori dei clan e le tradizionali cornamuse sono la prova che il patriottismo non ha mai smesso di esistere. Ma ciò non significa che, dopo il voto del 2016 in favore della Brexit, gli scozzesi vorranno davvero l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Basta guardare gli ultimi secoli di storia. E le mosse della First Minister di Edimburgo
QUANDO GLI INDIPENDENTISTI SCOZZESI, nel settembre 2014, ottennero il 44,6% dei voti contro il 55,4% di coloro che non volevano divorziare dalla Gran Bretagna, Eugenio Scalfari scrisse su l’Espresso che l’esito del referendum non avrebbe scoraggiato le numerose “piccole patrie” che desideravano imitare la Scozia. Pensava soprattutto alla Catalogna, ma anche ad altre regioni, non soltanto in Europa (il Tibet per esempio), che aspirano a una maggiore autonomia, se non addirittura all’indipendenza. Aveva ragione. Il fenomeno esiste ed è per molti aspetti legato al declino degli Stati tradizionali e alla loro crescente impotenza di fronte ai colossali problemi della globalizzazione. Ma non mi sembrò giusto che l’espressione “piccola patria” venisse applicata a un Paese che ha soltanto poco più di 5 milioni di abitanti ma è stato per alcuni secoli una potenza europea, capace di contestare agli inglesi il dominio delle isole britanniche, sede di una famiglia reale che ha occupato il trono d’Inghilterra per quasi un secolo, fino al 1689, e culla di correnti intellettuali che hanno marcato tutta la cultura occidentale. Qualche anno fa è apparso negli Stati Uniti un libro di Arthur L. Herman, storico della Georgetown University di Washington, intitolato How the Scots Invented the Modern World (Come gli scozzesi hanno inventato il mondo moderno). Può darsi che l’amore per la Scozia abbia indotto l’autore a qualche esagerazione, ma saremmo ingrati se dimenticassimo che erano scozzesi un grande riformatore religioso (John Knox, collaboratore di Calvino e organizzatore della Chiesa presbiteriana nel suo Paese), un grande filosofo (David Hume, teorico della natura umana e dello scetticismo), un grande economista (Adam Smith, autore de La ricchezza delle nazioni), un grande tecnico (James Watt, inventore della macchina a vapore), un grande esploratore (David Livingstone, scopritore delle Cascate Vittoria), uno dei maggiori romanzieri dell’Ottocento (Walter Scott, amato da Alessandro Manzoni e autore di romanzi che
evocano vicende e personaggi della storia scozzese), un grande biologo (Alexander Fleming, inventore della penicillina); e che oggi è scozzese, fra gli altri, Sean Connery, creatore di James Bond, e in Scozia risiede J. K. Rowling, creatrice di Harry Potter.
NON SORPRENDE quindi che esista un patriottismo popolare scozzese fatto di zampogne ( bagpipe), gonnellini ( kilt), tessuti di lana e lino con i colori del clan ( tartan) e Nessie, il mostro inesistente di Loch Ness. Piace agli americani che se ne sono appropriati per feste e parate anche quando non sono di origine scozzese. Piace a Hollywood, dove i film di storia scozzese, come Braveheart di Mel Gibson e Rob Roy di Michael Caton Jones, tratto da un romanzo di Walter Scott, hanno sempre grande successo. Non sono certo, invece che esista, un “nazionalismo” scozzese
altrettanto popolare. Il primo movimento indipendentista risale al 1920 quando le teorie politiche di Woodrow Wilson e la disintegrazione di tre grandi imperi (austro-ungarico, russo e ottomano) risvegliarono i sentimenti nazionali di popoli che avevano perduto la loro indipendenza. Ma la Scozia, per la Gran Bretagna, è un caso alquanto diverso da quello dell’Irlanda e dell’India. A differenza di altri popoli, gli
[...] A volte questi pensieri sono / pioggerellina, appena percettibile, niente di più leggero: / a volte uno scroscio battente, una / solerte pulizia primaverile della mente: a volte, un terribile temporale./ Sempre di più, con l’età, / odio le metafore,/ amo la leggerezza, / temo i temporali. (Norman Mac Caig, Non c’è scelta, 1910 - 1996)
scozzesi non furono sudditi dell’Impero britannico. Ne furono, come gli inglesi, i costruttori. Non vi è carriera pubblica, da quella della politica a quella delle armi, in cui gli scozzesi non abbiano avuto grandi responsabilità nazionali. Non vi è mestiere, impresa o disciplina accademica in cui non abbiano raggiunto posizioni eminenti. Il loro status, nella grande famiglia britannica, ricorda quella degli ucraini nella grande famiglia russa. Edimburgo, come Kiev, non era capitale, ma Londra, come Mosca, era sempre pronta a riconoscere i meriti dei suoi abitanti.
GLI STUART CERCARONO di riconquistare il trono per due volte durante la prima metà del XVIII secolo, ma il matrimonio anglo-scozzese è stato per almeno due secoli una unione complessivamente felice. La regina Vittoria e il principe consorte, Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, si innamorarono della Scozia, comprarono il vecchio castello di Balmoral e ne fecero costruire un altro, a cento metri di distanza, che divenne la loro residenza preferita. Alberto amava i tartan, ne studiò la storia, li classificò, divenne quello che gli storici definiscono un “inventore della tradizione”.
Quando fu terminata la costruzione di Balmoral, volle che anche il nuovo castello avesse il suo tartan e lo disegnò con Vittoria: quadri rossi e grigi attraversati da una linea rossa. Sembra che dopo la morte, nel 1861, il suo posto, nel cuore di Vittoria, sia stato occupato da un fedele servitore scozzese, John Brown, simpatico, aitante e devoto.
IL PROBLEMA DELL’INDIPENDENZA, quindi, è relativamente recente. Nasce, come abbiamo, visto dopo la Grande guerra ed è, agli inizi, soprattutto il desiderio di un Parlamento che permetta agli scozzesi di non dipendere interamente da Westminster. A Edimburgo, lo Scottish National Party, creato nel 1934, diventa sempre più rappresentativo di un crescente sentimento nazionale. A Londra, i conservatori sono risolutamente contrari e i laburisti pragmaticamente disponibili. La svolta ha luogo nel 1997, quando Tony Blair, alla testa del partito laburista, vince trionfalmente le elezioni con un programma che prevede la devolution, vale a dire il trasferimento dei poteri (con due eccezioni: esteri e difesa) ai nuovi Parlamenti della Scozia e del Galles. Da quel momento il problema scozzese riflette fedelmente lo stato delle relazioni fra la Gran Bretagna e
l’Unione Europea. Quanto più crescono gli umori euroscettici della società britannica, tanto più sembra crescere il desiderio scozzese di uscire dal Regno Unito per entrare nella Europa unita. Ma il referendum del 2014 dimostra che in Scozia esiste ancora una maggioranza a cui l’autonomia piace più dell’indipendenza.
È POSSIBILE CHE IL RISULTATO di un altro referendum (quello con cui la Gran Bretagna, nel giugno del 2016, ha deciso di lasciare l’Ue) possa cambiare gli animi degli scozzesi? La Signora Nicola Sturgeon, First minister della Scozia, sa che la maggioranza dei suoi connazionali non vuole, per il momento, un altro referendum; ma si riserva di chiederlo nel 2018 se il risultato del negoziato tra Londra e Bruxelles non terrà conto degli interessi scozzesi. Un’altra signora a Londra, Theresa May, dice che questo non è il momento di parlare di referendum. Non è la prima volta che i protagonisti del se- colare duello fra Scozia e Inghilterra sono due donne. È accaduto all’epoca di due regine, Maria Stuarda ed Elisabetta II. Finì con la decapitazione della prima, ma la scure del boia, in questo caso, sarà il voto degli elettori.