L’inferno in Terra è quello vissuto (e raccontato) dalle donne yazide
«PRIMA CHE SATANA RIVELI i suoi dubbi ai deboli cuore e di intelletto, si deve ricordare che schiavizzare le famiglie degli infedeli e prendere le loro donne come concubine è un aspetto previsto in modo stabile dalla sharia, tanto che se uno lo negasse o deridesse, negherebbe o deriderebbe i versetti del Corano e le narrazioni del Profeta, giungendo a compiere quindi un’apostasia dall’islam». Sono passati tre anni da quell’ottobre 2014 in cui Dabiq, la rivista patinata e in inglese dell’Isis, pubblicò la famigerata copertina con una bandiera dello stato islamico che sventolava sull’obelisco di piazza San Pietro. Colpiti dal fotomontaggio e dalle minacce contro Roma e i cristiani, furono in pochi a dare il giusto peso a quella oscena teorizzazione della schiavitù. Peraltro praticata per secoli dai mercanti arabi che avevano in pugno la tratta fino all’ultimo e più celebre dei trafficanti, Hamed bin Mohammed el-Murgebi. La memoria di quella rivendicazione brucia però ancora sulla carne viva di quelle giovani yazide che vissero l’infame prepotenza di cui i tagliagole si vantavano: «Dopo la cattura, le donne e i bambini yazidi furono divisi, come prevede la sharia, tra i combattenti dello Stato Islamico che avevano partecipato alle operazioni nel Sinjar, questo dopo che un quinto degli schiavi furono trasferiti all’autorità dello Stato Islamico per essere divisi come “khums”», cioè come quota del «bottino di guerra» da versare all’autorità. Dopo di che «le famiglie Una ragazza yazida affacciata alla finestra di una casa di Silopi, cittadina nel sud-est della Turchia dove ha trovato rifugio dopo la fuga dall’Iraq di schiavi yazidi vengono ora vendute dai soldati dello Stato Islamico come gli idolatri venivano venduti dai Compagni ( di Maometto, ndr) prima di loro». «Per loro eravamo kuffar, infedeli cui si può fare qualsiasi cosa. Durante la prigionia ci hanno umiliato: non ci davano da mangiare; picchiavano tutte, persino le bambine piccole; ci compravano e ci vendevano e ci facevano ogni cosa gli venisse in mente. Era come se non fossimo esseri umani», ricorda Nour (nome di fantasia), una delle testimoni ascoltate da Amnesty. Il libro Il genocidio degli yazidi. L’Isis e la persecuzione degli “adoratori del diavolo”, scritto per l’editore Guerini da Simone Zoppellaro, è pieno di storie così. Storie da togliere il sonno. Come quella di «”Jamila”, una ventenne di Sinjar rapita il 3 agosto 2014, ha riferito di essere stata stuprata da almeno dieci uomini che la “compravano” l’uno dall’altro», come scrive nella prefazione il portavoce italiano di Amnesty, Riccardo Noury. A Mosul, ricorda la ragazza, «i combattenti di Daesh hanno obbligato lei e altre donne e ragazze a togliersi i vestiti e a “posare” per i fotografi prima di essere “vendute”. Ogni volta che provava a scappare, veniva legata mani e piedi a un letto, sottoposta a stupro di gruppo, picchiata coi cavi elettrici e privata del cibo». Gli aguzzini, magari ragazzi cresciuti nelle periferie delle città europee ascoltando musica rap, credevano di averne diritto. Anzi, rinfacciavano agli islamici troppo «morbidi» di non averlo fatto prima: come poteva esistere ancora una «minoranza pagana» 1400 anni dopo l’avvento del Profeta? «Seveh», racconta il libro, fu «scambiata tra sei diversi combattenti di Daesh in Iraq e in Siria prima di essere “rivenduta” alla famiglia, nel novembre 2015». Pestata e stuprata ripetutamente, tentò tre volte il suicidio. Sua sorella, «Nermeen», riuscì a farla finita dopo essere tornata libera. Non sopportava i ricordi di quanto aveva vissuto. Si diede fuoco nel campo per profughi di Zakho, nel Kurdistan iracheno. Morì dopo tre giorni di straziante agonia. Aveva solo tredici anni.