INTERVISTA CLASSICA - QUESTO NON LO SCRIVA
Fu il primo ad annunciare l'assassinio di John F. Kennedy. Si è occupato di Vietnam, Cina, Afghanistan. È stato per quasi un quarto di secolo il volto del tg della Cbs, da cui si dimise per colpa di uno scoop su George W.Bush basato (anche) su documenti f
Dan Rather: «Se faccio ancora il giornalista è merito di Trump»
PER 24 ANNI, DAL 1981 AL 2005, Dan Rather è entrato ogni sera nelle case degli americani con il telegiornale della Cbs. Nei due decenni precedenti, il Paese l’aveva ascoltato raccontare i dettagli dell’assassinio di Kennedy, l’aveva visto sul campo a Saigon e sul fronte della guerra interna per i diritti civili. Alla Casa Bianca negli anni del Watergate e in Afghanistan, primo a entrare nella Kabul occupata dai sovietici. Poi, nel 2004, la caduta. Quando si scoprì che un suo servizio su 60 minutes – dove si accusava l’allora presidente George W. Bush di avere ricevuto un trattamento preferenziale nella guardia nazionale texana per evitare il Vietnam – aveva fatto affidamento (anche) su documenti falsi. Rather, come racconta il film Truth, in cui è interpretato da Robert Redford, difende ancora oggi il contenuto di quel servizio nonostante i dubbi sull’autenticità delle carte, ma lasciato solo dal network si convinse alle dimissioni. Non però ad andare in pensione, perché « il giornalismo crea
più dipendenza del crack». E a 86 anni, dopo più di un decennio in una piccola tv via cavo, sta vivendo una seconda giovinezza. Grazie a Facebook. La sua pagina ha oltre due milioni e mezzo di like, quella della sua trasmissione oltre un milione. Ogni suo post ha decine di migliaia di condivisioni. Il 7 novembre è uscito il suo nuovo libro, What Unites Us: Reflections on Patriotism. L’uomo che mi viene incontro nei suoi uffici sulla Sixth Avenue di New York ha modi d’altri tempi. Prima di cominciare a registrare l’intervista si scusa, sistema gli apparecchi per l’udito e, pianissimo, comincia a parlare. Mr Rather, tutto merito di Trump? «La sua ascesa mi ha donato nuova energia, ho la sensazione di avere ritrovato uno scopo: provare a essere una voce di buon senso e a offrire un po’ di contesto e prospettiva a quanto sta accadendo nel mio Paese. Ma anche se mi rendo conto di avere un canale dalla potenza sorprendente sui social media, con un numero di follower per me incredibile, sono ben consapevole di lavorare ancora alla periferia del giornalismo. Non conduco più il telegiornale cinque sere a settimana, non sono più una presenza regolare in tv, ma è piuttosto gratificante che centinaia di migliaia, milioni di persone leggano i miei sforzi di essere una persona razionale in tempi irrazionali». Se lo sarà chiesto e glielo avranno chiesto decine di volte. Ha trovato una risposta al perché l’America ha eletto come suo commander in chief un discusso milionario senza alcuna esperienza politica? «Toccherà ai libri di storia rispondere, ma una delle ragioni credo vada ricercata nell’accelerazione del cambiamento che come un lampo – wooosh! – ha investito
«Trump è stato eletto anche per l’accelerazione del cambiamento che ha portato in superficie paure e razzismo di chi è rimasto indietro nella società»
la società negli ultimi 25 anni e ha portato in superficie tante paure, razzismo e anti-elitismo da parte di chi è rimasto indietro a causa del digital divide nei confronti di chi è andato avanti. L’ampia maggioranza dei miei concittadini che ha votato Trump però, ne sono certo, ama questo Paese quanto me. Solo che, disorientata, ha pensato di avere bisogno di un nuovo tipo di leadership. E la mia esperienza è che quasi sempre, non importa se si tratta di un voto locale o di un’elezione presidenziale, quando c’è un candidato che emana forza, pur mancando di carattere ed esperienza rispetto al suo avversario, la forza, vera o apparente, vince. Conosco Trump dalla fine degli anni Settanta, e sin dall’inizio dicevo che non doveva essere sottovalutato proprio perché l’elettorato voleva un cambiamento, di qualsiasi tipo». Se c’è una sola cosa che questo presidente e il suo predecessore hanno in comune, è che anche Obama fu scelto perché l’elettorato cercava un cambiamento radicale. Quel cambiamento non è stato gradito? «No, non la metterei così: ricordiamoci, questo è un Paese che ha eletto il suo primo presidente di colore – ed io non pensavo che sarei mai riuscito a vedere quel giorno – e poi lo ha rieletto. Obama però ha governato per due mandati pieni, e lo schema della politica americana, con qualche eccezione, è che se un partito governa per due mandati poi va a casa. I democratici, dato che l’economia era migliorata nettamente, pensavano di poterne strappare un terzo. Hillary Clinton però non ha corso una campagna molto intelligente, era troppo sicura di vincere. E invece basta dire che oltre il 50% delle donne che ha votato ha scelto Trump». Se lei non fosse stata la candidata non saremmo qui a chiederci cosa è successo all’America? «Probabilmente sì, ma chi può esserne certo? Possiamo discuterne per ore ma dobbiamo fare i conti con la realtà. Siamo a poco meno di un anno dall’insediamento di Trump e nella nostra storia non abbiamo mai, dico mai, avuto una presidenza con un avvio così caotico.
Abbiamo tutti sperato che nonostante le cose dette in campagna elettorale Trump facesse lo sforzo di essere il presidente di tutti gli americani, invece sinora lo spirito della sua presidenza è stato: mi muoverò per la mia base e all’inferno il resto del Paese». Il tono dei suoi interventi sui social è sempre più allarmato, parla spesso di pericolo senza precedenti, di emergenza nazionale. Come vede il futuro prossimo del suo Paese? Lo special counsel Robert Mueller ( che sta indagando sui rapporti tra la campagna di Trump e i funzionari russi, ndr) ha enormi poteri e l’indagine che sta conducendo è ampia e profonda. Ci vorrà del tempo per conoscerne i risultati ma questa inchiesta tiene il futuro della presidenza Trump appeso a un filo. La domanda è: perché il presidente è preoccupato da questa indagine al punto da sembrare terrorizzato, perché vuole ostacolarla, che cosa nasconde? Questa nube si fa sempre più scura e renderà estremamente difficile per lui portare avanti la sua agenda in questa legislatura. Ma se la buona notizia, per me e per gli amici dell’America, è che finora le nostre istituzioni, pensate per “controllare e bilanciare” i poteri presidenziali, hanno tenuto, è importante per gli americani capire che queste istituzioni hanno una loro fragilità, e sono sotto costante attacco da parte di questo presidente». Anche se non dovesse realizzare le promesse elettorali, pensa che le stesse parole di Trump – sulle donne, sugli immigrati, sui suprematisti bianchi – e persino il suo utilizzo sciatto della lingua, possano infliggere un danno permanente all’America? «Con la tossicità delle sue parole e il suo atteggiamento, Trump sta già inquinando il discorso pubblico. E ignorando gli alleati danneggia la nostra reputazione nel mondo. Voi in Europa purtroppo potete comprendere la forza del richiamo al nazionalismo. Ma il nazionalismo nella sua forma migliore – come ci ha insegnato Kennedy – non preclude l’internazionalismo. Si può essere patrioti, avere un forte senso della nazione, e allo stesso tempo avere la consapevolezza che nel XXI secolo non si può essere isolazionisti. Parte dell’affermazione di Trump deriva dal risentimento dei cristiani bianchi che un tempo controllavano praticamente tutte le leve del potere e ora dicono: rivogliamo indietro quel Paese. Be’, ammesso che sia desiderabile, non è possibile». La stampa è uno degli obiettivi preferiti del presidente. Ma in parte i suoi attacchi risuonano perché i mezzi di informazione hanno un problema di credibilità. Sempre più retroscena e gossip politico e meno notizie. Stando un giorno intero davanti a Fox o Cnn può capitare di non sentire mai citare un solo Paese straniero. «Purtroppo la competizione, a causa di internet, è diventata spietata e ha abbassato gli standard. Troppi programmi di intrattenimento fatti passare per approfondimento. Combattiamo in Afghanistan da quasi 17 anni, e nelle rare occasioni in cui se ne discute di solito mettono quattro persone a urlarsi addosso in una stanza e nessuna di loro è mai stata sul campo e sa davvero di cosa parla. Sono spariti due elementi importantissimi: il giornalismo investigativo e il reportage internazionale. Con l’arrivo di Trump c’è stata qualche ripresa del primo, ma c’è bisogno che la luce del giornalismo illumini tanti luoghi oscuri, anche al di là di questa amministrazione. Il giornalismo non è una scienza precisa, è una sorta di arte grezza con l’obiettivo di arrivare alla verità o almeno il più vicino possibile ed è al suo meglio quando prova a essere all’altezza delle sue responsabilità come servizio pubblico. Se non lo è, è giusto che risponda dei suoi errori. Dobbiamo sempre ricordare che il nostro ruolo non è quello di piacere, ma di essere rispettati. Se sei un giornalista e vuoi essere amato è meglio se ti prendi un cane. E che sia chiaro, io stesso ho fatto i miei errori, ho le mie ferite, alcune auto inflitte, altre ancora aperte». Quali sono stati i momenti in cui le è piaciuto di più fare il suo lavoro? «Sono molto fortunato perché ho tante occasioni tra cui scegliere per rispondere alla sua domanda. Anche nei momenti più difficili, sono sempre stato felice di essere un giornalista, ma non c’è niente come la sen-
«Dobbiamo sempre ricordare che il ruolo dei giornalisti non è quello di piacere, ma di essere rispettati»
sazione di essere in prima linea a raccontare una storia di rilevanza mondiale. Penso a quando ho seguito il movimento per i diritti civili negli anni Sessanta, a quando siamo entrati in Afghanistan dopo l’invasione sovietica, o in piazza Tienanmen durante la rivolta del 1989. In quei momenti ho pensato: è tutta la vita che mi preparo per questa storia, e sono qui, ci sono, abbiamo un’esclusiva mondiale. Ma sono stato molto felice anche quando ero solo un reporter locale che copriva la polizia e riuscivo a restare in centrale anche dopo la mezzanotte. È un mestiere che richiede profonda passione e dedizione, ma bisogna stare attenti, perché può causare dipendenza più della cocaina, e rovinare il resto della tua vita». La sua assistente entra a ricordargli che si è fatto tardi. Lui fa per salutarmi, già due volte ha detto di dover andar via ma poi ha ripreso a chiacchierare. Si volta e mi chiede: posso farle una domanda io? «Certo», rispondo. «Come ha scelto questo mestiere?». «Temo di dover incolpare mio padre. Nella vita si occupa di vini, ma da avido lettore è un accumulatore seriale di giornali». A questo punto mi sono guadagnata il tempo per un altro scambio. E lei? «È una storia simile! I miei avevano una istruzione modesta, ma erano anche loro grandi lettori. Mio padre ripeteva sempre che i giornali sono l’università dei poveri. Essere un giornalista è stato tutto quello che ho sempre sognato di fare, sin da quando ero un ragazzino e i miei compagni di giochi dicevano di voler diventare capi indiani, o cowboy». Ancora oggi è uno dei volti più cari al pubblico americano. Ha sempre desiderato lavorare in tv? «Oh no! Ho cominciato dalla carta, ma commettevo troppi errori di ortografia, e non ho avuto altra scelta che andare avanti con la radio e la televisione».
«Questo mestiere richiede passione e dedizione, ma bisogna stare attenti, perché può creare dipendenza e rovinare il resto della tua vita»