Corriere della Sera - Sette

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- Di Claudia Cavaliere

In cento giorni New York diventa la mia città

SONO ARRIVATA A NEW YORK il primo luglio 2017. Ho lasciato la mia famiglia, le mie sorelle, le mie amiche. Ho lasciato persone, progetti e una strada senza uscita. La valigia era carica di aspettativ­e, quelle che si porta dietro ogni lungo

viaggio; della convinzion­e che, in un modo o nell’altro, tutto avrebbe funzionato. Di un sorriso stampato sul viso che mi ha fatta sentire piena ad ogni passo, nonostante la nostalgia. Spesso mi sono scontrata con l’evidenza che non tutto può dipendere da me. Alcune cose sono riuscita a tenerle insieme, altre ho dovuto lasciarle andare. Da quel primo luglio sono passati oltre cento giorni. Li racconto in cinque pillole.

GIORNO 1: atterrata al Jfk ho iniziato a pregare che insieme a me scendesser­o dall’aereo anche i bagagli. Poi ho raggiunto la mia zia del Delaware, siamo andate nella casa che avevo scelto dall’Italia e…siamo scappate via. Era un vero disastro! Ho vissuto in New Jersey con mio cugino per tre settimane e ogni giorno facevo la pendolare. La morale del mio primo giorno a New York City è che io New York non l’ho assolutame­nte vista! Ma dal Verrazzano-Narrows Bridge ho sbirciato il primo di una lunga serie di tramonti che mi avrebbero sempre fatta sentire a casa.

GIORNO 25: a New York piove e anche dentro di me. Le frasi di incoraggia­mento che mi ripeto stanno perdendo di significat­o. Ho iniziato a chiedermi che cosa ci faccio dall’altra parte dell’Oceano, lontana da tutti. Camminando per tornare a casa sul Manhattan Bridge, ho trovato il mio rifugio. Ho telefonato alle mie amiche e sono scoppiata a piangere, ma loro erano lì con me, dall’altra parte della cornetta a incoraggia­rmi.

GIORNO 71: ci sono notizie che ti raggiungon­o nonostante la distanza, le partenze, i silenzi. Ho pensato all’amore, alle amicizie, alle radici. Ho pensato alle persone che ho lasciato e a quelle che non ho mai fatto davvero entrare nel mio cuore. Ho pensato se questo tentativo di proteggerm­i non mi abbia poi fatto soffrire di più.

GIORNO 84: ora questa città è il posto in cui ho sempre voluto vivere. Essere qui è come essere a casa: non è sempre tutto facile, non incontri sempre persone che puoi cucirti addosso ma, alla fine, sai sempre da che parte andare.

GIORNO 92: vivo in una casa con i mattoni a vista. Ho una finestra sul soffitto. Mi ispira il modo in cui la luce entra e illumina la giornata. Leonard Cohen cantava in Anthem: « There is a crack in everything, that’s how the light gets in » C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce. È con un sorriso e questa frase in testa che mi sono svegliata questa mattina.

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