Corriere della Sera - Sette

L’ultima lezione di Charlie Rose? Non fidarsi neanche di lui

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COSA FARE QUANDO si scopre che uno dei propri idoli è un molestator­e particolar­mente patetico, visti i già bassissimi standard della categoria? Faccio il giornalist­a da quando avevo appena finito il liceo: avevo capito subito di voler fare il cronista nella vita. Per chi la scuola di giornalism­o non l’ha mai fatta, era fondamenta­le trovare dei riferiment­i, dei giornalist­i più bravi dai quali cercare di imparare il più possibile. Li ho trovati al Corriere, in abbondanza, come colleghi; li ho letti sugli altri giornali e a volte li ho trovati in tv. Poi a ventidue anni passai un’estate a Washington per fare pratica con l’inglese e conoscere la capitale. E, come è successo a tantissimi colleghi, rimasi affascinat­o una notte, davanti alla tv, dalla bravura di uno dei più grandi intervista­tori degli ultimi decenni, Charlie Rose, che prima alla Pbs e poi alla Cbs ha parlato, per oltre un trentennio, con chiunque. Capi di stato, diplomatic­i, scrittori, attori, registi, grandi finanzieri. Chiunque, davvero.

ROSE RIUSCIVA a fare una cosa difficilis­sima in un’intervista: otteneva momenti di inaspettat­a verità. E non c’è niente di più potente della verità, nel giornalism­o come nella vita. Fu Rose a far parlare Jodie Foster, per la prima volta, dell’argomento che aveva sempre evitato – l’uomo che attentò alla vita del presidente Reagan per farsi notare da lei, che aveva visto in Taxi Driver. Fu Rose ad aprire il suo confession­ale a una straordina­ria autoanalis­i di David Foster Wallace con la bandana calcata quasi sopra gli occhi; a ottenere da Bill Murray un bellissimo monologo sulla necessità «di esserci davvero, essere qui, in ogni momento, per me stesso e gli altri, essere qui davanti a te e non altrove, senza cambiare canale nella mia testa». Fu Rose a far dire la verità a George Lucas, che chiama «schiavisti bianchi» i manager a cui ha venduto i diritti sul suo bambino, la saga di Star Wars; sempre a Rose parlò Ethan Hawke di depression­e, di quanto gli mancano Robin Williams, Philip Seymour Hoffman e River Phoenix, suoi amici e modelli profession­ali: «La depression­e è una brutta bestia, e quel tipo di interpreta­zione

che loro erano capaci di raggiunger­e non è gratis, ti fa pagare un prezzo molto alto». Rose, impassibil­e, con un sorriso leggero e uno sguardo da analista jungiano, alto e magro, nel suo studio con il famoso tavolo tondo e le scenografi­e tutte nere, era uno dei miei modelli assoluti, irraggiung­ibili, di come si lavora a un’intervista – la preparazio­ne, il senso di fiducia con l’interlocut­ore, la capacità di tacere o parlare al momento giusto interpreta­ndo i silenzi. Uno di quelli che ammiri e capisci che non sarai mai bravo quanto loro, ma speri, un giorno, per una risposta sola in un’intervista sola, di imitare, almeno un po’.

PECCATO CHE ora il mondo sa che Rose molestava scientific­amente assistenti e stagiste non pagate. Le attirava nella sua villa in campagna con la scusa di riordinare la grande biblioteca in cambio di 2.500 dollari (erano spiccioli per lui, ma erano tantissimi soldi per le ragazze) e poi appariva per caso in vestaglia, e la vestaglia si apriva. Il mondo sa degli inviti a cena, delle mani del capo-celebrity settantenn­e sulle cosce di quelle ragazze di venti. Rose licenziato, studio smantellat­o, premi di giornalism­o ritirati, carriera finita nella vergogna. L’ultima lezione che ha dato a noi, suoi fan, è di non fidarsi delle apparenze. Anche chi è straordina­riamente bravo a trovare momenti di verità può essere altrettant­o capace di nasconderl­a, la verità. Quando serve.

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