PASSAPAROLA
Signora Brin, potrà mai perdonarci per essere diventati così piagnoni?
LO SANNO IN POCHI, ma gran parte dell’italiano migliore che ancora oggi si scrive si deve a lei, Irene Brin, giornalista di costume (e molto di più) amata (e inventata) da Longanesi. Qualche esempio per mostrare come splende ancora la sua prosa. Cominciamo da una serie di ritratti. Greta Garbo, l’attrice più sacra che ci sia mai stata: «Offrì ai suoi innumerevoli biografi, ai suoi innamorati, alle sue nemiche, ugualmente avide di indiscrezioni, dettagli, pettegolezzi, capaci finalmente di spiegarla, l’impenetrabilità di una infanzia, di una giovinezza, di una maturità, completamente qualsiasi, lisci, opachi, segreti». Un’altra primadonna, Marta Abba, musa e amante di Pirandello (più vecchio di lei di trentatré anni): «Grande, carnosa, e per contrasto, per ribellione, per difesa, sempre giovanissima, la vedemmo, candida tra gli ermellini e gli omaggi al Festival Veneziano: l’anno dopo sfatta, faceva i bagni a Genova in una spiaggia familiare, indossando costumi stinti, aprendo la bocca amara sopra sbadigli di pantera. Ritornò presto bella, amata: amata con gelosia, e Corrado Alvaro raccontò che il Maestro soffriva se in presenza di amici Marta si sfilava una scarpetta». L’ultimo ritratto è quello di Amalia Guglielminetti, scrittrice e poetessa illustre dagli abiti audacemente scol- lati e sbracciati e dalle tette svettanti, come scrive in versi a lei dedicati (furono amanti e finì a pesci in faccia e carte bollate) l’infame Pitigrilli, spia e romanziere: «Alla donna che ha fredde le mani / i grand’occhi cerchiati di blù, / ed i seni voltati all’insù, / come i fiori degli ippocastani». Di lei, Irene Brin scrive: «Poi, quando gli abiti senza maniche, e rigati, non usarono più, quando le sottigliezze di Pitigrilli furono diffuse tra i giovani commessi, Amalia Guglielminetti abbandonò lo stile perfido-e-ingenuo,
delle eterne bambine terribili, e scrisse racconti ragionevoli... Morì tristemente, cadendo da una scala». Non fu solo ritrattista di primedonne. La Brin si superava nella foto di gruppo. Un esempio da manuale sono i suoi milanesi che sembrano, con le dovute differenze, la versione lombarda del generone romano (quello immortalato da Gadda nel Pasticciaccio, e che ci sia voluto un milanesone per narrare il generone romano è paradosso su cui riflettere). Già negli anni Trenta Irene descriveva i riti di quella gente allegra e spendacciona: «serate alla Scala o all’Operà, bridgettini intimi, pokerini amichevoli, pomeriggi a San Siro e magari anche una cenetta in Bagutta, per vedere gli intellettuali da vicino». All’epoca Arbasino aveva otto anni. Per scrivere pezzi del genere ci vuole orecchio. La novità della prosa della Brin è una resa perfetta del parlato. Come il birignao della Signora-intailleur fresca reduce dalla Scala e in gita al mare che racconta: «Abbiamo visto il Lohèngrin, spet-ta-co-lo-so! Quei cori, quei cori! Ah, perché gli assolo, lasciamo andare, non avevano un ac-ci-den-ti! Ma i coloooori, i coloooori! C’erano dei ròssi, dei ròssi, spet-ta-co-lo-si!». Altri milanesi, in gita gastronomica a Roma, perdono la testa per un pub alla moda: «Ma sapete qual è un posto spet-ta-co-loso? La Birreria Dreher! È inutile, dopo teatro, ci va tutta Roma, una fòòòòlla, una fòòòòlla». È stata brava Flavia Piccinni a raccogliere le perle di Irene Brin ( Il mondo. Scritti 1920-1965), la capostipite, la fondatrice dello stile che è stato poi di tante signore (e anche di qualche signore, Arbasino) grandi firme.
RIMANE SOLO un mistero da chiarire. Com’è stato possibile che in Italia la scrittura (giornalistica e letteraria) sia poi diventata così piagnucolosa, savonaroliana, micragnosa, sfogo insostenibile di piangina e di prefiche?