SOMMERSI DALLA CRISI
Un'associazione fondata nel 1898 distribuisce cibo a chi ne ha bisogno. Chi si incontra in coda? L'architetto senza casa (Lady Trolley), il lupo di mare restato a terra, il fattorino che con 300 euro al mese non ce la fa, mamme con i figli. Uomini e donne
Dacci oggi il nostro pane milanese
ORE 8.45 Eccomi, sono in coda. Nei 2 gradi pungenti del primo inverno lo sguardo rimbalza tra il cielo di un azzurro raramente milanese e i dettagli del mosaico il più lungo d’Europa che riveste il muro della ex Centrale del Latte alla nostra sinistra. Intanto le automobili sfrecciano sulla circonvallazione, e più in là i filobus della linea 90-91 sulla preferenziale. La coda è statica, poi tutto d’un tratto ci si sposta di qualche metro. Davanti a me, due mamme musulmane con passeggini e una nidiata di bambini. Accanto a me, un uomo alto e signorile, gli occhi
azzurri da lupo di mare, lo si immaginerebbe a ormeggiare la sua barca a vela a Porto Cervo. «Prima volta?» mi chiede con un sorriso complice «Anch’io la prima volta ero smarrito, poi tornare è stato sempre più normale». Siamo in coda per entrare nel centro di distribuzione di viale Toscana del Pane Quotidiano, onlus laica e apolitica. Nata nel 1898 per iniziativa di benemeriti milanesi, da allora il Pane Quotidiano dispensa gratuitamente generi alimentari a chiunque, in cuor proprio, sappia di averne bisogno, senza richiedere documenti, ancora oggi un modello unico in Italia. Ogni giorno passo qui davanti con il filobus, un infinito viaggio della speranza lungo la cerniera con la prima periferia di Milano. All’altezza di viale Toscana il paesaggio anonimo della circonvallazione lascia all’improvviso il posto a una scena vivida come un quadro di Edward Hopper: ogni mattina si compone accanto al mosaico una coda di varia umanità in attesa, compatta e ordinata indifferentemente sotto la pioggia, al gelo o nella canicola estiva. Ognuno, con la propria storia aspetta di ottenere la razione gratuita di provviste alimentari, noncuranti degli spettatori che li osservano dalla strada e dai mezzi pubblici. Tanti salgono e scendono dal filobus, mescolati ad impiegati e universitari, con i loro trolley porta-spesa. «Sorella, fratello, nessuno qui ti domanderà chi sei, né perché hai bisogno, né quali sono le tue opinioni» recita il cartello affisso all’ingresso. Il rispetto dell’anonimato e un’assenza di filtri d’accesso in base al censo, nella fiducia della coscienza della propria condizione da parte di chi accede. Un principio bellissimo in un’epoca come la nostra in cui la povertà è una realtà dalle sfumature impercettibili, che accomuna disoccupati e divorziati, anziani e studenti, pensionati e millenials, famiglie e single. Oggi ho deciso di scendere dal filobus e di unirmi alla coda: 150 metri di persone in paziente attesa per una borsa di viveri.
ORE 9.00 Si aprono i cancelli, in lontananza i volontari orchestrano l’afflusso degli utenti negli spazi di distribuzione. Sopra le nostre teste armeggiano le gru del cantiere del nuovo campus dell’Università Bocconi. In coda, dietro di me, una bella signora sulla cinquantina, occhi verdi, rossetto color aragosta, capelli corvini raccolti in una treccia sbarazzina. Rompe il silenzio e mi attacca bottone: «Lo sa chi sono io?». Pausa enfatica. «Sono l’architetto che ha inventato il trolley», sostiene. E inizia a raccontarmi con dettagli acrobatici la sua articolata storia in cui si incastrano fotomodelli di Dolce & Gabbana e militari, invenzioni rubate e altre rimaste nel cassetto, per concludere con un più mesto spaccato sociale del dormitorio dove vive.
ORE 9.20 La fila procede a tratti, si conquistano tre metri, poi ci si arresta ancora. E c’è tempo, quello che ci manca tutti i giorni, per guardarsi in giro, per pensare, per trattenere un po’ di tepore mentre il