Corriere della Sera - Sette

PASSAPAROL­A

Passano i millenni ma Omero e Missiroli si fanno ancora la stessa domanda

- Di Antonio D’Orrico

HO UN DEBOLE per i libri che raccolgono informazio­ni disparate alla rinfusa. (tipo Manuale delle giovani marmotte, ma anche Zibaldone di Leopardi). Da qualche giorno ho scoperto la Guida tascabile per maniaci dei libri che racchiude curiosità varie: dall’elenco dei mille libri fondamenta­li a un’antologia di stroncatur­e celebri. C’è anche un catalogo di incipit di tutti i tempi. Ovviamente, ci sono cascato in pieno. Ho preso i primi attacchi del catalogo, quelli antichi, e li ho messi a confronto con gli ultimi, quelli di oggi, per vedere l’effetto che fa. Cominciamo con l’Iliade di Omero, settimo secolo prima di Cristo: «Cantami, o Diva, del Pelide Achille / l’ira funesta che infiniti addusse / lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco / generose travolse alme d’eroi, / e di cani e d’augelli orrido pasto / lor salme abbandonò (così di Giove / l’alto consiglio s’adempìa), da quando / primamente disgiunse aspra contesa / il re de’ prodi Atride e il divo Achille». Ho confrontat­o l’incipit omerico con quello di Atti osceni in luogo privato di Marco Missiroli, 2015 (dopo Cristo): «Avevo dodici anni e un mese, mamma riempiva i piatti di cappellett­i e raccontava di come l’utero sia il principio della modernità. Versò il brodo di gallina e disse: “Impariamo dalla Francia con le sue ondate di suffragett­e che hanno liberalizz­ato le coscienze”. “E i p******”. La crepa fu questa. Mio padre che soffiava sul cucchiaio mentre sentenziav­a: “e i p******”. Mamma lo fissò, Non ti azzardare più davanti al bambino, le sfuggì il sorriso triste. Lui continuò a raffreddar­e i cappellett­i e aggiunse: “Sono una delle meraviglie del cosmo”». Dal confronto nasce una domanda: l’utero di Elena fu il principio dell’antichità? Dunque, tutto si tiene? Altro incipit antico: Odissea di Omero (volendo, la seconda stagione dell’I-

liade) «L’uomo ricco di astuzie raccontami, o Musa, che a lungo / errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia; / di molti uomini le città vide e conobbe la mente, / molti dolori patì in cuore sul mare, / lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi. / Ma non li salvò, benché tanto volesse, / per loro propria follia si perdettero, pazzi!, / che mangiarono i bovi del Sole Iperione, / e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno. / Anche a noi di’ qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus». Forse non è astuto come Odisseo, però nel personaggi­o del papà in Acqua buia (2012) di Joe Lansdale, c’è qualcosa di ulissiaco: «Quell’estate, papà smise di far secchi i pesci col telefono e la dinamite e passò ad avvelenarl­i con le noci acerbe. Usare la dinamite era una faccenda rischiosa: un paio di anni prima – non so come – si era fatto saltare due dita, oltre a essersi ritrovato un’ustione su una guancia che, di primo acchito, sembrava un bacio dato col rossetto e, a guardare meglio, una sorta di eruzione cutanea». Finiamo con due scrittrici. Saffo, quarto secolo a.C. («Tramontata è la luna / e le Pleiadi a mezzo della notte; / giovinezza dilegua, / e io nel mio letto resto sola»), e Donna Tartt, Il cardellino (2013 dopo Cristo): «Quand’ero ancora ad Amsterdam, per la prima volta dopo anni sognai mia madre. Ero rimasto confinato nella mia stanza d’albergo per più di una settimana, terrorizza­to all’idea di chiamare chicchessi­a o di mettere il naso fuori, il cuore che fremeva e sussultava anche al più innocuo dei rumori: il campanello dell’ascensore, l’andirivien­i del carrello del minibar, persino i campanili delle chiese che scandivano le ore, de Westertore­n, Krijtberg, un clangore dai contorni vagamente oscuri, come i presagi di sventura delle fiabe». Notte, solitudine, inquietudi­ne, sogni, insonnia, giovinezza che fugge...

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