Ci vuol coraggio a difendere gli stipendi d’oro dei burocrati siciliani
«SONO ASSOLUTAMENTE contrario al taglio degli stipendi alti», ha sentenziato Gianfranco Micciché insediandosi alla presidenza dell’Assemblea Regionale Siciliana. Spiegando che «da tempo il mondo ha dichiarato fallito il marxismo: non tutti gli stipendi possono essere uguali, non tutto il lavoro è uguale». Una sparata spacciata per anti-populista, ma offensiva per tutti coloro che conoscono la storia delle favolose buste-paga distribuite per decenni da una regione che, pur godendo di una amplissima autonomia, ha un reddito pro capite di 12.838 euro: la metà esatta dell’Alto Adige. Dove i funzionari non hanno mai visto le prebende riconosciute ai colleghi siciliani arrivate negli anni a livelli stratosferici. Valga per tutti lo stipendio annuale che incassava, come disse in tv l’allora governatore Rosario Crocetta, il segretario generale dell’Ars, Sebastiano Di Bella, pensionato nel 2014: 650mila euro. Cioè il triplo dello stipendio di Ban Ki Moon, il segretario generale dell’Onu. Il quintuplo di quello dei massimi dirigenti della Casa Bianca: 172.200 dollari; pari, al cambio medio calcolato per il 2014 dalla Banca d’Italia (1,3285), a 129.619 euro.
DEL RESTO, prima di lisciare il pelo oggi ai propri, potentissimi, burocrati, lo stesso Micciché, già presidente dell’Ars dal 2006 al 2008, diceva di pensarla diversamente. E (forse per lisciare allora il pelo ai populisti) si sfogò per essere stato costretto ad approvare la buonuscita a un altro segretario La sala dell’Assemblea Regionale Siciliana a Palazzo dei Normanni, Palermo. Lo stipendio dell’ex segretario generale era faraonico: 650mila euro all’anno, il triplo del segretario generale Onu
generale uscente, Gianliborio Mazzola: «Quando ho firmato la sua liquidazione di un milione e 770mila euro mi sono sentito un deficiente». Evidentemente ha cambiato idea. L’ostilità di oggi al taglio degli stipendi più alti, però, gli hanno risposto con una lettera aperta sul Giornale di Sicilia due preti scandalizzati, don Cosimo Scordato e don Francesco Romano, è «fortemente imbarazzante». Tanto più in un’Italia con milioni di poveri al limite della sopravvivenza. E «se proprio vogliamo parlare di merito», prosegue l’atto di accusa dei due sacerdoti, «ci chiediamo quale merito ha maturato l’amministrazione regionale (governo e parlamento siciliano) nella sua storia: la Sicilia è tra le ultime regioni per il livello di occupazione e per la qualità delle infrastrutture (ferrovie, strade, collegamenti...), con la pesante compromissione del turismo; presenta gravi inefficienze nel servizio ospedaliero (con particolari criticità nei pronto soccorso), spingendo molta gente a cercare cure fuori dall’Isola…». Per non dire di «tante terre in stato di abbandono», della «mancanza di una progettualità per lo sviluppo autentico dell’agricoltura», dei «bassi risultati conseguiti nella qualità della vita» o del fatto che «in diverse città ancora oggi non si riesce a risolvere il problema della raccolta dei rifiuti». Invettiva sacrosanta: negli stessi giorni del proclama di Micciché, la Corte dei Conti faceva a pezzi la gestione dei rifiuti degli ultimi anni. Denunciando «una perdita di milioni che dovevano arrivare dall’Ue» a causa della «carenza della programmazione particolarmente grave ed estesa» e dei «fallimenti pianificatori a cascata».
INSOMMA, «visti i risultati dovremmo parlare di demerito e addirittura, ma è solo una provocazione, dovremmo parlare di restituzione di stipendi e di premi assegnati», concludevano i due preti. Quello cui è stato condannato dalla Corte dei Conti Felice Costa, uno dei protagonisti della scellerata gestione dell’immondizia. Obbligato a restituire mese su mese oltre un milione di euro dei vitalizi già ottenuti. Prima che la magistratura ci mettesse una toppa, la Regione gli aveva donato una pensione di 41mila euro al mese.