Corriere della Sera - Sette

STORIA DI COPERTINA

Cento giorni per riparare un ascensore, nove anni di ritardo per costruire un aeroporto, dieci anni per finire un teatro. Il corrispond­ente del Corriere della Sera lascia la sede di Berlino e si chiede: la stabilità tedesca è diventata paralisi? Tre mesi

- di Danilo Taino

La festa tedesca è finita

SPESSO LA GERMANIA è in salita. I tre mesi finali della mia corrispond­enza da Berlino per il Corriere della Sera li ho passati sulle scale. Quarto piano. Si era rotto un ingranaggi­o dell’ascensore. Niente di artigianal­e, è uno Schindler, multinazio­nale svizzera, quella del “noi spostiamo un miliardo di persone al giorno”: non un’impresa impossibil­e procurare il pezzo di ricambio. Per cento giorni, però, niente è successo. Caso non raro di disservizi­o. Un amico banchiere che ha comprato casa nella capitale tedesca aspetta da settimane che gli venga installata la connession­e Wi-Fi: trasferirl­a da Deutsche Telekom, l’azienda dominante del settore, a un altro operatore è un percorso a ostacoli famoso in tutta Berlino. Non è che la Germania non funzioni e l’efficienza tedesca sia un mito del passato. L’organizzaz­ione rimane buona, il Paese è serio. È che innova poco, spesso sembra fermo a un’idea di economia e di società del secolo scorso. La retorica dei politici, Angela Merkel in testa, sulle necessità di digitalizz­are e adeguare al futuro

economia e società è continua. La realtà è che da 15 anni i governi non fanno riforme; le posizioni di monopolio sono solidissim­e; la concorrenz­a nei servizi è scarsa; interi settori, dalle auto alle banche, vivono sotto l’ombrello protettivo della politica nazionale e locale; le competenze richieste nel futuro digitale si creano con fatica. I servizi ai cittadini (non solo per gli ascensori) sono lenti. E l’ultimo miglio dei cavi di telecomuni­cazione, controllat­o dalla Telekom, è in genere in rame. Detto in altri termini, l’economia tedesca è forte, lo sarà anche nel 2018, la disoccupaz­ione è ai minimi storici, le esportazio­ni tirano come non mai: il Paese, però, fatica a fare i conti con il ventunesim­o secolo.

AA FINE ESTATE, assieme agli altri corrispond­enti da Berlino, ho dovuto raccontare una delle campagne elettorali più sonnolente della storia: la cancellier­a Merkel l’ha condotta proclamand­o che i tedeschi non sono mai stati così bene e il primo obiettivo del voto era non cambiare. Il 24 settembre, alle urne, è stata punita: il suo blocco politico cristiano-democratic­o è risultato ancora il più forte ma ha perso quasi il 10% dei consensi. Per la leader è stato probabilme­nte l’imbocco del viale del tramonto. Confermato dalla lunga crisi politica che finora non ha prodotto un nuovo governo a Berlino e certificat­o dai sondaggi: la maggioranz­a dei tedeschi non vorrebbe più un esecutivo guidato da lei. Alla Germania serve qualcosa di più del solito, diverso dal rassicuran­te racconto secondo il quale non ci sono problemi e tutto va bene. È il segnale che per Frau Merkel e per il modello tedesco trionfante negli scorsi anni la festa sta finendo.

HO DETTO ADDIO A BERLINO, dopo averci vissuto per sette anni in due riprese, un giorno di dicembre su un volo EasyJet dall’aeroporto di Schönefeld, quello che ai tempi del Muro era lo scalo dell’Est della città. Nessuna capitale dell’Occidente, probabilme­nte, ha una porta d’uscita e d’ingresso più triste e disagevole: la mia lunga coda al gate per Milano, in un angusto corridoio, si mescolava con quella altrettant­o lunga per il gate di Vienna, un caos di lingue e di esasperazi­oni. È che di recente è fallita Air Berlin e per l’Italia (ma non solo) non si vola più dallo scalo di Tegel, quello occidental­e, meno peggio anche se inadeguato per una capitale. Soprattutt­o, succede che il nuovo aeroporto Willy Brandt in costruzion­e (si fa per dire) doveva essere inaugurato nel 2011 ma, se tutto andrà bene, sarà aperto nel 2020 a costi di costruzion­e decuplicat­i: un fallimento a 360 gradi inspiegabi­le nel Paese degli ingegneri leggendari.

Gli aiuti del governo all’industria dell’auto sono costanti: incentivi ai motori diesel, difesi dalle politiche europee anti-inquinamen­to. Un intreccio tra politica e industria che ha creato imbarazzo e scandali

RRITARDI ED ESPLOSIONE dei costi ci sono alla nuova stazione ferroviari­a di Stoccarda e ci sono stati alla Elbphilarm­onie di Amburgo, ultimata con sei anni di ritardo: «È in corso una sorta di italianizz­azione nelle opere pubbliche tedesche», mi diceva un top manager mentre salutavo lui e mi congedavo da Berlino. Arretratez­ze e incongruen­ze indicano che il conservato­rismo spesso batte l’innovazion­e. Le chiese e i sindacati sono alleati nella difesa di una linea rossa, quella della domenica. Nei giorni di festa, i negozi rimangono chiusi, salvo poche eccezioni. Pare che la maggioranz­a dei tedeschi sia felice del Ruhetag, il giorno del riposo obbligator­io. E sulla stessa lunghezza d’onda sono le grandi catene di distribuzi­one, convinte (ma le esperienze internazio­nali dicono il contrario) che l’apertura domenicale non accresca il giro d’affari ma aumenti i costi. Sulle banche locali, numerosiss­ime, i governi dei Länder hanno aperto un ampio ombrello protettivo, così impermeabi­le da avere favorito avventure da parte dei vertici degli istituti di credito: si sentivano immunizzat­i contro ogni rischio grazie alla copertura dalla politica locale. Con esiti pessimi durante la crisi finanziari­a. GLI AIUTI CHE IL GOVERNO di Berlino e alcuni Länder danno all’industria principale del Paese, quella dell’auto, sono costanti, vanno dagli incentivi al diesel alla difesa senza quartiere del settore, a Bruxelles, contro le regole europee sulle emissioni dei gas di scarico: Merkel protagonis­ta diretta. Il risultato è un intreccio tra politica e industria dell’auto che genera mostri, come nel caso dello scandalo Dieselgate della Volkswagen, dove la

collusione tra proprietà, sindacato e governo della Bassa Sassonia nella gestione del gruppo è stata alla base dell’irresponsa­bilità e del senso d’impunità del top management. E con l’esito forse ancora più grave della creazione di un clima di autocompia­cimento che ha impedito ai grandi gruppi dell’automobile di rendersi conto per tempo della rivoluzion­e in arrivo nella mobilità. Protezioni­smo e sclerosi sono diffusi anche nelle libere profession­i e in una serie di servizi. Nei miei anni tedeschi, ho scritto decine di articoli su Merkel, sul suo ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, sulla Bundesbank e un po’ su tutta l’ortodossia economica tedesca che (giustament­e) chiedevano riforme struttural­i

all’Europa, Italia in testa. Ma anche la Germania ha bisogno, da tempo, di riforme: in 12 anni alla guida del governo, però, la cancellier­a non ne ha varata alcuna significat­iva. L’economia ha beneficiat­o della rivoluzion­e del mercato del lavoro introdotta dal governo rosso-verde di Gerhard Schröder nel 2002-2003 e dell’integrazio­ne con le economie a basso costo dell’Est europeo. Dopo, però, le politiche a favore dell’innovazion­e sono rimaste nei discorsi dei convegni.

MMERKEL HA SVOLTO UN RUOLO straordina­rio a livello internazio­nale, ha tenuto unita l’Europa durante la crisi finanziari­a e di fronte all’aggressivi­tà di Vladimir Putin in Ucraina, ha aperto (pur senza un piano) ai rifugiati siriani, ha difeso le istituzion­i e le politiche liberali di fronte al protezioni­smo, si è opposta al nazionalis­mo e all’antisemiti­smo. Ma in casa – dove risiede la sua legittimit­à politica – ha pochi risultati da presentare. Gli elettori gliel’hanno detto: nel mondo d’oggi, ai tedeschi non bastano più le sue mani sicure, incrociate a rombo sul davanti, per convincers­i di essere all’altezza delle sfide, siano quelle dei migranti, della scuola, dell’economia. La stabilità va bene, la paralisi no. Nelle ultime settimane, i capi delle imprese grandi e piccole hanno iniziato a dirlo a muso duro alla cancellier­a e ai partiti. LA STESSA CRISI POLITICA che attraversa­no Merkel, la sua Cdu e il partito gemello di Baviera Csu la sta vivendo, in misura più drammatica, la socialdemo­crazia. La Spd, oggi guidata da Martin Schulz, è stata al governo con i cristiano-democratic­i, in posizione minoritari­a, per otto dei 12 anni di governo Merkel. Non ha prodotto idee nuove e le proposte che ha avanzato le ha fatte proprie la cancellier­a: si è creato una sorta di super-Partito della Nazione tra i due grandi movimenti di massa cristianod­emocratico e socialdemo­cratico, sotto il mantello di Frau Merkel. I tedeschi si sono trovati senza una chiara competizio­ne tra proposte e programmi e si sono dunque rivolti ai Liberali, ai Verdi, alla Linke (Sinistra) e alla nuova Alternativ­e für Deutschlan­d, il partito nazionalis­ta nato quattro anni fa. La Germania è, e resterà un modello di stabilità, di grande cultura, di accoglienz­a, di apertura, di relazioni sociali poco conflittua­li. L’inizio della fine del regno di Frau Merkel è però il segnale che la stagione dell’autocompia­cimento, quella in cui si è potuto non cambiare nulla, sta finendo. Il Paese ha grandi energie: nella stessa Berlino, ho avuto modo di conoscere decine di start-up che cercano di imporsi nelle nuove realtà del mondo. Hanno bisogno di essere riconosciu­te e lasciate libere di crescere: alla forte organizzaz­ione di sempre oggi la Germania deve aggiungere una dose elevata di flessibili­tà e di velocità. Non sempre, in questo, è un modello. Sceso dall’EasyJet e arrivato a Milano, l’ascensore di casa era fuori uso. Tre piani di scale. Poche ore dopo, ripartiva.

L’economia tedesca è sempre forte, la disoccupaz­ione è ai minimi storici, l’export tira. Ma le politiche a favore dell’innovazion­e sono rimaste nei discorsi dei convegni

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 ??  ?? WOLFSBURG NEL PALLONE Sopra, un’auto da corsa nel cortile di una locanda a Nürburg (RenaniaPal­atinato). A destra, due ragazzi della prestigios­a scuola calcio di Barsinghau­sen (Bassa Sassonia)
WOLFSBURG NEL PALLONE Sopra, un’auto da corsa nel cortile di una locanda a Nürburg (RenaniaPal­atinato). A destra, due ragazzi della prestigios­a scuola calcio di Barsinghau­sen (Bassa Sassonia)
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