Meno appelli da firmare, più sacchetti per cani
La nostra indignazione è diventata narcisismo
Occuparsi sempre dei torti altrui è un modo per trascurare i propri, assolvendosi. Dobbiamo liberarci dalle gabbie linguistiche di una presunta superiorità morale. “Indignarsi” e “resistere” possono tornare a essere verbi attivi in modo concreto. Come? Resistendo alla nostra pigrizia civica a partire dai piccoli gesti quotidiani
GABBIE, NON C’È ALTRO MODO di definirli: ci sono verbi e sostantivi che finiscono per imprigionarci fra le loro sbarre. Esprimono valori di per sé positivi, ma si sa come funziona l’abuso linguistico: a forza di ripetere una certa parola ad ogni occasione, il suo significato si indurisce, diventa una risposta automatica all’infinita varietà dell’esistente. Quando poi certe parole si associano a un sentimento di superiorità morale, diventa davvero difficile evaderne. Si produce una specie di fissità del pensiero, una rappresentazione pericolosamente immobile di sé e del mondo. È questo il motivo del profondo disagio che provo sempre quando sento pronunciare due verbi che ormai si associano in maniera quasi automatica nel linguaggio contemporaneo: parlo del “resistere”, e dell’”indignarsi”. Devo subito correggermi: non provo nessuna particolare avversione per l’indicativo, o il congiuntivo, o il condizionale di questi verbi. La resistenza e l’indignazione, considerati nella loro natura di fatti concreti e puntualmente delimitati della vita, mi sembrano del tutto rispettabili, oltre che necessari.
PUR ESSENDO UN CARATTERE sostanzialmente tiepido, anche io, all’occasione, resisto a qualcosa e mi indigno di qualcos’altro. Ma quando mi chiedo se ho fatto bene a resistere, o a indignarmi, non posso che rispondermi: dipende. Dipende dall’aver prodotto qualcosa di utile, dal fatto che il mondo, un’infinitesima scheggia di mondo, ricavi qualche infinitesimale beneficio dall’insorgere in me di un sentimento di resistenza o indignazione. Ho notato che nella stragrande maggioranza dei casi, tale effetto è concretamente, felicemente verificabile quando l’indignazione, o la resistenza, sono rivolti contro di
me. La vita quotidiana è piena di occasioni preziose per sperimentare questo piccolo accorgimento. Scendo in strada con il cane, appena sveglio, e la cosa che desidero di più al mondo è raggiungere il bar per bere un caffè. Ma mi accorgo di aver dimenticato le bustine per raccogliere i bisogni del cane. Il mio primo, spontaneo desiderio è farla franca, chiudere un occhio su ciò che sto facendo. Il mio cane è rapido e discreto, con i suoi bisogni. Tutti nella strada mi conoscono, per amicizia faranno finta di nulla, capiranno il mio desiderio di fare colazione. Ebbene, se riesco a indignarmi della mia pigrizia, e a resisterle, risalendo e prendere le bustine, ho fatto una cosa buona. E sono sicuro del fatto che la bontà della mia scelta è astrattamente legata al fatto che quei moti di indignazione e resistenza, oltre ad essere rivolti contro il mio carattere e le mie pulsioni egoistiche, erano anche limitati nel tempo, ristretti alla particolare contingenza.
È OVVIO CHE LA VITA ci mette di fronte a situazioni molto più complesse di quelle che si affrontano in una passeggiatina con il cane. Ma è altrettanto ovvio che il protrarsi a tempo indeterminato di qualunque emozione civica, ben oltre i limiti della sua utilità tangibile, equivale, a mio parere, a una forma di ottusità programmata. L’infinito del verbo ci crocifigge a un’idea di noi fondata sulla permanenza, su una supposta ma del tutto indimostrabile nobiltà della durata. Resistere, resistere, resistere. Questa concezione di sé, che è nello stesso tempo lugubre e comoda, peggiora addirittura se al posto dell’infinito si avvale del participio. L’indignarsi genera gli indignati. Il participio è un vincolo, un contratto psicologico ancora più esigente dell’infinito. Una volta che sei un indignato, il tuo concetto di te sarebbe gravemente compromesso dal fare un passo indietro.
IL MONDO TI OFFRIRÀ sempre qualche ragione per rimanere in questa condizione cronica. Ti svegli indignato, e sicuramente, nel tuo Paese o nel mondo, avverrà qualcosa che conforterà la tua decisione. Così come ti offrirà generosamente, quotidianamente, tutto ciò che ti occorre a resistere, appelli da firmare, boicottaggi in ogni ambito. Tutto concorre a gonfiare l’ego dell’indignato, del resistente. Non gli chiedete di osservare il mondo nella sua infinita, vibratile mutevolezza ed imprevedibilità. Il mondo è la benzina di un motore narcisistico, la materia di un’ingorda, perpetua combustione. Si può vivere lì, fino all’ultimo respiro, senza occuparsi veramente d’altro, senza approfondire. E solo così che il Narciso dell’impegno, intransigente sulle altrui manchevolezze, può agevolmente lasciare sul selciato qualche cacchetta del suo cagnolino. Che importa a questo punto?