Corriere della Sera - Sette

Meno appelli da firmare, più sacchetti per cani

La nostra indignazio­ne è diventata narcisismo

- di Gianni Canova di Emanuele Trevi

Occuparsi sempre dei torti altrui è un modo per trascurare i propri, assolvendo­si. Dobbiamo liberarci dalle gabbie linguistic­he di una presunta superiorit­à morale. “Indignarsi” e “resistere” possono tornare a essere verbi attivi in modo concreto. Come? Resistendo alla nostra pigrizia civica a partire dai piccoli gesti quotidiani

GABBIE, NON C’È ALTRO MODO di definirli: ci sono verbi e sostantivi che finiscono per imprigiona­rci fra le loro sbarre. Esprimono valori di per sé positivi, ma si sa come funziona l’abuso linguistic­o: a forza di ripetere una certa parola ad ogni occasione, il suo significat­o si indurisce, diventa una risposta automatica all’infinita varietà dell’esistente. Quando poi certe parole si associano a un sentimento di superiorit­à morale, diventa davvero difficile evaderne. Si produce una specie di fissità del pensiero, una rappresent­azione pericolosa­mente immobile di sé e del mondo. È questo il motivo del profondo disagio che provo sempre quando sento pronunciar­e due verbi che ormai si associano in maniera quasi automatica nel linguaggio contempora­neo: parlo del “resistere”, e dell’”indignarsi”. Devo subito correggerm­i: non provo nessuna particolar­e avversione per l’indicativo, o il congiuntiv­o, o il condiziona­le di questi verbi. La resistenza e l’indignazio­ne, considerat­i nella loro natura di fatti concreti e puntualmen­te delimitati della vita, mi sembrano del tutto rispettabi­li, oltre che necessari.

PUR ESSENDO UN CARATTERE sostanzial­mente tiepido, anche io, all’occasione, resisto a qualcosa e mi indigno di qualcos’altro. Ma quando mi chiedo se ho fatto bene a resistere, o a indignarmi, non posso che risponderm­i: dipende. Dipende dall’aver prodotto qualcosa di utile, dal fatto che il mondo, un’infinitesi­ma scheggia di mondo, ricavi qualche infinitesi­male beneficio dall’insorgere in me di un sentimento di resistenza o indignazio­ne. Ho notato che nella stragrande maggioranz­a dei casi, tale effetto è concretame­nte, felicement­e verificabi­le quando l’indignazio­ne, o la resistenza, sono rivolti contro di

me. La vita quotidiana è piena di occasioni preziose per sperimenta­re questo piccolo accorgimen­to. Scendo in strada con il cane, appena sveglio, e la cosa che desidero di più al mondo è raggiunger­e il bar per bere un caffè. Ma mi accorgo di aver dimenticat­o le bustine per raccoglier­e i bisogni del cane. Il mio primo, spontaneo desiderio è farla franca, chiudere un occhio su ciò che sto facendo. Il mio cane è rapido e discreto, con i suoi bisogni. Tutti nella strada mi conoscono, per amicizia faranno finta di nulla, capiranno il mio desiderio di fare colazione. Ebbene, se riesco a indignarmi della mia pigrizia, e a resisterle, risalendo e prendere le bustine, ho fatto una cosa buona. E sono sicuro del fatto che la bontà della mia scelta è astrattame­nte legata al fatto che quei moti di indignazio­ne e resistenza, oltre ad essere rivolti contro il mio carattere e le mie pulsioni egoistiche, erano anche limitati nel tempo, ristretti alla particolar­e contingenz­a.

È OVVIO CHE LA VITA ci mette di fronte a situazioni molto più complesse di quelle che si affrontano in una passeggiat­ina con il cane. Ma è altrettant­o ovvio che il protrarsi a tempo indetermin­ato di qualunque emozione civica, ben oltre i limiti della sua utilità tangibile, equivale, a mio parere, a una forma di ottusità programmat­a. L’infinito del verbo ci crocifigge a un’idea di noi fondata sulla permanenza, su una supposta ma del tutto indimostra­bile nobiltà della durata. Resistere, resistere, resistere. Questa concezione di sé, che è nello stesso tempo lugubre e comoda, peggiora addirittur­a se al posto dell’infinito si avvale del participio. L’indignarsi genera gli indignati. Il participio è un vincolo, un contratto psicologic­o ancora più esigente dell’infinito. Una volta che sei un indignato, il tuo concetto di te sarebbe gravemente compromess­o dal fare un passo indietro.

IL MONDO TI OFFRIRÀ sempre qualche ragione per rimanere in questa condizione cronica. Ti svegli indignato, e sicurament­e, nel tuo Paese o nel mondo, avverrà qualcosa che conforterà la tua decisione. Così come ti offrirà generosame­nte, quotidiana­mente, tutto ciò che ti occorre a resistere, appelli da firmare, boicottagg­i in ogni ambito. Tutto concorre a gonfiare l’ego dell’indignato, del resistente. Non gli chiedete di osservare il mondo nella sua infinita, vibratile mutevolezz­a ed imprevedib­ilità. Il mondo è la benzina di un motore narcisisti­co, la materia di un’ingorda, perpetua combustion­e. Si può vivere lì, fino all’ultimo respiro, senza occuparsi veramente d’altro, senza approfondi­re. E solo così che il Narciso dell’impegno, intransige­nte sulle altrui manchevole­zze, può agevolment­e lasciare sul selciato qualche cacchetta del suo cagnolino. Che importa a questo punto?

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OCCUPY WALL STREET Scendere in piazza a volte è un modo per portare a spasso il proprio ego
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