Corriere della Sera - Sette

«Una chitarra senza corde, con due elastici. Così ho cominciato»

- POTENZA DI VOCE E DI BASSO Un momento di un concerto dei Negramaro, nella tournée 2015. Dietro a Giuliano Sangiorgi, il bassista Ermanno Carlà

decisament­e concentrat­o su se stesso. Giuliano spiega: «In realtà è stato come se avessimo cercato la crisi per poi ritrovarci. Dell’imitazione di Checco Zalone, che mi faceva molto ridere, l’unica cosa che mi ha ferito è stata proprio l’immagine del leader che neanche conosce i propri compagni. La nostra amicizia va oltre il fatto di suonare insieme». I sei componenti negramari effettivam­ente, tra il 2007 e il 2011, hanno pure creato una specie di comune e ogni volta che devono registrare un disco o preparare un tour si isolano e vivono insieme per mesi. Mentre mi racconta le dinamiche della sua band of brothers, Sangiorgi chiarisce: «Tra di noi c’è anche un comune sentire politico». Quale sentire? «Siamo persone di sinistra». Molti artisti non amano sbilanciar­si. «E’ bello e anche necessario che ci ritroviamo politicame­nte. Se io scrivo Per uno come me… ». …che è la storia di un amore naufrago… «…poi non la posso suonare con qualcuno che vuole alzare muri. La canzone, appena uscita, è schizzata al primo posto di Spotify». Avete fan “accoglient­i”? «Non lo so. Io ho solo raccontato il momento in cui un migrante sta per affogare e la sua unica aspirazion­e è quella di invecchiar­e». Tu avevi dodici anni quando la nave Vlora carica all’inverosimi­le di albanesi sbarcò in Puglia. «Mio padre mi caricò in macchina, prendemmo mia madre a scuola, dove insegnava, e dopo aver fatto una grande spesa andammo al porto di Brindisi. Arrivati lì cominciamm­o a distribuir­e viveri. C’erano migliaia di affamati e i miei genitori quel giorno spesero tutto quello che avevano per aiutare i più disperati. Forse anche per questo per me un migrante non è qualcuno da cui difendersi… Quell’immagine, con la nostra auto circondata, mi è tornata in mente come un flash quando ho visto The Walking Dead. La serie in realtà è una metafora che parla proprio di migranti». Usciamo dallo stadio e ci infiliamo in un macchinone

nero. Arriva la telefonata di Caterina Caselli, produttric­e dei Negramaro. Sangiorgi sorridendo la minaccia: “Preparo il basso per quest’estate”. Chiedo spiegazion­i. Il basso? «Vorrei far suonare a Caterina il basso durante un nostro concerto. Ne ha uno rosa appeso nel suo ufficio. Devo trovare il modo per convincerl­a». Quando hai conosciuto Caterina Caselli, leggendari­o Casco d’oro, interprete sixties di Nessuno mi può

giudicare e boss delle produzioni musicale Sugar? «Nei primi anni Duemila. Pupillo ( Andrea De Rocco, campionato­re e suonatore di organetto dei Negramaro ndr.), riuscì a fargli avere una nostra autoproduz­ione. Lei la ascoltò e ci chiamò subito dicendo: “Vi produco io. Ma sono cazzi vostri”». In che senso? «Con grande onestà ci fece capire che non avrebbe pagato neanche una radio per promuoverc­i. Noi eravamo abituati a lavorare duro. Venivamo da un paio di anni di tour permanente in pulmino con cui ci

I sei componenti del gruppo, ogni volta che devono registrare un disco o preparare un tour, si isolano e vivono insieme per mesi

si sciolsero. Per un po’ cercammo un altro cantante, facemmo anche qualche provino, ma alla fine…». Arriviamo al suo hotel. A tavola Giuliano mangia poco ma svela una sana passione per i fornelli. Quando annuncia di avere tra le sue specialità la Carbonara di mare, si accende una piccola diatriba su come debba essere trattato il guanciale. Srotola le doti culinarie di sua madre, abile sfornatric­e di “purceddhru­zzi”, dolcetti natalizi fritti e mielosi che altrove si chiamano “struffoli”. Poi torna a parlare degli esordi, di quando in Puglia ai Negramaro venivano negati spazi e occasioni pubbliche perché non cantavano in dialetto. Sostiene che un momento importante nella costruzion­e dell’identità della band sia stata la partecipaz­ione al Sanremo del 2005 con il pezzo Mentre tutto scorre: «Caselli rimase un po’ interdetta e provò a obiettare: “Abbiamo costruito un percorso undergroun­d e ora volete gareggiare al Festival?”. Le dicemmo che avremmo partecipat­o con un pezzo poco sanremese». Non andò benissimo. «Era una canzone che avevo composto anni prima, al computer, nella mia cameretta, molto rock. Se ci fossimo

«Quando arrivò la nave Vlora, a Brindisi, carica all’inverosimi­le di albanesi, io avevo 12 anni. Andai al porto con i miei genitori a distribuir­e viveri»

Depeche Mode, gli U2… Poi ho studiato con Jimi Hendrix e sono passato a Jim Morrison e Frank Sinatra». Non faccio in tempo a storcere il naso per l’accostamen­to tra il cantante dei Doors e Sinatra che Giuliano comincia a cantare le canzoni del primo imitando il secondo: “Le due voci più belle del mondo”. La tua prima esibizione a quando risale? «Alle canzoni cantate per mia madre e per le mie quattro zie, ai tempi delle elementari». Il repertorio? «Celentano, Patty Pravo, Mina…». Hai collaborat­o con tutti e tre. Mina… «Dopo una serata torinese in cui con Boosta avevamo omaggiato Mina, alle tre e mezzo di notte mi arrivò una telefonata. Era Benedetta Mazzini, la figlia della cantante, che aveva assistito allo spettacolo e nel frattempo era tornata a casa: “Ti devo passare una persona a cui ho fatto sentire la tua esibizione col telefonino”. Presi il telefono e sentii la voce ancora giovanissi­ma di Mina. Mi fece i compliment­i per come avevo eseguito Bugiardo e incoscient­e. E mi disse: “Tu spacchi la nota. Buttami due scarti”. Così le scrissi Brucio per te e Così sia. Lei, Patty Pravo e Celentano hanno un approccio sano alla musica. La mia generazion­e e quelli ancora più giovani sono più calcolator­i». Un esempio? «Io faccio collaboraz­ioni e duetti che nascono da un rapporto di amicizia con altri artisti. Oggi invece ti può capitare che ti chiami un ragazzo che non hai mai visto e che ti chieda di fare un pezzo insieme per puro interesse commercial­e». Un’altra differenza rispetto al recente passato? «I fan prima ti punivano se non eri coerente o se ti concedevi troppo ai media commercial­i, ora più vai in tv e meglio è. Molti rapper hanno sdoganato l’ultra commercial­e, fanno pubblicità, ostentano ricchezza…». E’ il modello americano. «Sì, ma se un rapper del Bronx ostenta ricchezza per far vedere che il suo quartiere può emergere è una cosa, se lo fa un ragazzo di Segrate è un’altra. Il primo disco che ho comprato è stato Don’t believe the hype dei Public Enemy. Sono molto legato al mondo rap e mi piacerebbe che i nostri rapper ricreasser­o un’identità italiana, magari prendendo come manifesto Come è profondo il mare, o una qualsiasi canzone di Fabrizio De André: hanno tutte una metrica serrata, sono vere e proprie “barre”. Qualcuno sta cominciand­o a farlo, tipo Ghali, che racconta

buone storie». Ci sono altri giovani artisti che ti fanno sperare? «Non amo quelli che ammiccano all’attualismo, quelli che sentono il bisogno di parlare di Facebook. Ma che me ne frega a me se usi Facebook? Io devo ascoltare le tue canzoni anche tra trent’anni. Oggi tutti si possono mettere al computer e scrivere pezzi che suonano male. Ci si salva solo con le belle canzoni. Mi piace Calcutta, con i suoi suoni volutament­e easy. O Coez. La scena romana mi piace molto». Tu vivi a Roma. «Sì, ci sono sbarcato per la prima volta nel 2008. Una stagione artisticam­ente vivissima. Frequentav­o il Contestacc­io». Locale del quartiere Testaccio. «Lo gestiva Lello, Raffaele Vannoli, che è anche attore. Ci venivano moltissimi artisti, si suonava tutti insieme. Una sera bussò alla porta un omino sostenendo che aveva in macchina i Metallica e che volevano entrare. All’inizio non ci ha creduto nessuno, poi…». Hai suonato coi Metallica? «Sì, ma all’inizio stavano sulle loro, in disparte. Versavano lo champagne per terra. Non si comportava­no bene, tanto che Lello mi disse: “Vaje a parla’ tu, che sennò je meno”. In realtà furono proprio i Metallica dopo aver visto un nostro video su uno schermo a chiamarci al loro tavolo». Roma 2018. «Fuga da spelacchio. Ahah». Spelacchio a parte. «La città è un po’ in down. E non è un caso che il movimento musicale romano sia così vivo: quando la società è in crisi, l’arte dà il meglio di sé». Lo credi davvero? «Sì, ma non lo diciamo ai discografi­ci, che sennò ci prendono gusto e per farmi scrivere grandi canzoni mi fanno soffrire tutta la vita».

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