«Una chitarra senza corde, con due elastici. Così ho cominciato»
decisamente concentrato su se stesso. Giuliano spiega: «In realtà è stato come se avessimo cercato la crisi per poi ritrovarci. Dell’imitazione di Checco Zalone, che mi faceva molto ridere, l’unica cosa che mi ha ferito è stata proprio l’immagine del leader che neanche conosce i propri compagni. La nostra amicizia va oltre il fatto di suonare insieme». I sei componenti negramari effettivamente, tra il 2007 e il 2011, hanno pure creato una specie di comune e ogni volta che devono registrare un disco o preparare un tour si isolano e vivono insieme per mesi. Mentre mi racconta le dinamiche della sua band of brothers, Sangiorgi chiarisce: «Tra di noi c’è anche un comune sentire politico». Quale sentire? «Siamo persone di sinistra». Molti artisti non amano sbilanciarsi. «E’ bello e anche necessario che ci ritroviamo politicamente. Se io scrivo Per uno come me… ». …che è la storia di un amore naufrago… «…poi non la posso suonare con qualcuno che vuole alzare muri. La canzone, appena uscita, è schizzata al primo posto di Spotify». Avete fan “accoglienti”? «Non lo so. Io ho solo raccontato il momento in cui un migrante sta per affogare e la sua unica aspirazione è quella di invecchiare». Tu avevi dodici anni quando la nave Vlora carica all’inverosimile di albanesi sbarcò in Puglia. «Mio padre mi caricò in macchina, prendemmo mia madre a scuola, dove insegnava, e dopo aver fatto una grande spesa andammo al porto di Brindisi. Arrivati lì cominciammo a distribuire viveri. C’erano migliaia di affamati e i miei genitori quel giorno spesero tutto quello che avevano per aiutare i più disperati. Forse anche per questo per me un migrante non è qualcuno da cui difendersi… Quell’immagine, con la nostra auto circondata, mi è tornata in mente come un flash quando ho visto The Walking Dead. La serie in realtà è una metafora che parla proprio di migranti». Usciamo dallo stadio e ci infiliamo in un macchinone
nero. Arriva la telefonata di Caterina Caselli, produttrice dei Negramaro. Sangiorgi sorridendo la minaccia: “Preparo il basso per quest’estate”. Chiedo spiegazioni. Il basso? «Vorrei far suonare a Caterina il basso durante un nostro concerto. Ne ha uno rosa appeso nel suo ufficio. Devo trovare il modo per convincerla». Quando hai conosciuto Caterina Caselli, leggendario Casco d’oro, interprete sixties di Nessuno mi può
giudicare e boss delle produzioni musicale Sugar? «Nei primi anni Duemila. Pupillo ( Andrea De Rocco, campionatore e suonatore di organetto dei Negramaro ndr.), riuscì a fargli avere una nostra autoproduzione. Lei la ascoltò e ci chiamò subito dicendo: “Vi produco io. Ma sono cazzi vostri”». In che senso? «Con grande onestà ci fece capire che non avrebbe pagato neanche una radio per promuoverci. Noi eravamo abituati a lavorare duro. Venivamo da un paio di anni di tour permanente in pulmino con cui ci
I sei componenti del gruppo, ogni volta che devono registrare un disco o preparare un tour, si isolano e vivono insieme per mesi
si sciolsero. Per un po’ cercammo un altro cantante, facemmo anche qualche provino, ma alla fine…». Arriviamo al suo hotel. A tavola Giuliano mangia poco ma svela una sana passione per i fornelli. Quando annuncia di avere tra le sue specialità la Carbonara di mare, si accende una piccola diatriba su come debba essere trattato il guanciale. Srotola le doti culinarie di sua madre, abile sfornatrice di “purceddhruzzi”, dolcetti natalizi fritti e mielosi che altrove si chiamano “struffoli”. Poi torna a parlare degli esordi, di quando in Puglia ai Negramaro venivano negati spazi e occasioni pubbliche perché non cantavano in dialetto. Sostiene che un momento importante nella costruzione dell’identità della band sia stata la partecipazione al Sanremo del 2005 con il pezzo Mentre tutto scorre: «Caselli rimase un po’ interdetta e provò a obiettare: “Abbiamo costruito un percorso underground e ora volete gareggiare al Festival?”. Le dicemmo che avremmo partecipato con un pezzo poco sanremese». Non andò benissimo. «Era una canzone che avevo composto anni prima, al computer, nella mia cameretta, molto rock. Se ci fossimo
«Quando arrivò la nave Vlora, a Brindisi, carica all’inverosimile di albanesi, io avevo 12 anni. Andai al porto con i miei genitori a distribuire viveri»
Depeche Mode, gli U2… Poi ho studiato con Jimi Hendrix e sono passato a Jim Morrison e Frank Sinatra». Non faccio in tempo a storcere il naso per l’accostamento tra il cantante dei Doors e Sinatra che Giuliano comincia a cantare le canzoni del primo imitando il secondo: “Le due voci più belle del mondo”. La tua prima esibizione a quando risale? «Alle canzoni cantate per mia madre e per le mie quattro zie, ai tempi delle elementari». Il repertorio? «Celentano, Patty Pravo, Mina…». Hai collaborato con tutti e tre. Mina… «Dopo una serata torinese in cui con Boosta avevamo omaggiato Mina, alle tre e mezzo di notte mi arrivò una telefonata. Era Benedetta Mazzini, la figlia della cantante, che aveva assistito allo spettacolo e nel frattempo era tornata a casa: “Ti devo passare una persona a cui ho fatto sentire la tua esibizione col telefonino”. Presi il telefono e sentii la voce ancora giovanissima di Mina. Mi fece i complimenti per come avevo eseguito Bugiardo e incosciente. E mi disse: “Tu spacchi la nota. Buttami due scarti”. Così le scrissi Brucio per te e Così sia. Lei, Patty Pravo e Celentano hanno un approccio sano alla musica. La mia generazione e quelli ancora più giovani sono più calcolatori». Un esempio? «Io faccio collaborazioni e duetti che nascono da un rapporto di amicizia con altri artisti. Oggi invece ti può capitare che ti chiami un ragazzo che non hai mai visto e che ti chieda di fare un pezzo insieme per puro interesse commerciale». Un’altra differenza rispetto al recente passato? «I fan prima ti punivano se non eri coerente o se ti concedevi troppo ai media commerciali, ora più vai in tv e meglio è. Molti rapper hanno sdoganato l’ultra commerciale, fanno pubblicità, ostentano ricchezza…». E’ il modello americano. «Sì, ma se un rapper del Bronx ostenta ricchezza per far vedere che il suo quartiere può emergere è una cosa, se lo fa un ragazzo di Segrate è un’altra. Il primo disco che ho comprato è stato Don’t believe the hype dei Public Enemy. Sono molto legato al mondo rap e mi piacerebbe che i nostri rapper ricreassero un’identità italiana, magari prendendo come manifesto Come è profondo il mare, o una qualsiasi canzone di Fabrizio De André: hanno tutte una metrica serrata, sono vere e proprie “barre”. Qualcuno sta cominciando a farlo, tipo Ghali, che racconta
buone storie». Ci sono altri giovani artisti che ti fanno sperare? «Non amo quelli che ammiccano all’attualismo, quelli che sentono il bisogno di parlare di Facebook. Ma che me ne frega a me se usi Facebook? Io devo ascoltare le tue canzoni anche tra trent’anni. Oggi tutti si possono mettere al computer e scrivere pezzi che suonano male. Ci si salva solo con le belle canzoni. Mi piace Calcutta, con i suoi suoni volutamente easy. O Coez. La scena romana mi piace molto». Tu vivi a Roma. «Sì, ci sono sbarcato per la prima volta nel 2008. Una stagione artisticamente vivissima. Frequentavo il Contestaccio». Locale del quartiere Testaccio. «Lo gestiva Lello, Raffaele Vannoli, che è anche attore. Ci venivano moltissimi artisti, si suonava tutti insieme. Una sera bussò alla porta un omino sostenendo che aveva in macchina i Metallica e che volevano entrare. All’inizio non ci ha creduto nessuno, poi…». Hai suonato coi Metallica? «Sì, ma all’inizio stavano sulle loro, in disparte. Versavano lo champagne per terra. Non si comportavano bene, tanto che Lello mi disse: “Vaje a parla’ tu, che sennò je meno”. In realtà furono proprio i Metallica dopo aver visto un nostro video su uno schermo a chiamarci al loro tavolo». Roma 2018. «Fuga da spelacchio. Ahah». Spelacchio a parte. «La città è un po’ in down. E non è un caso che il movimento musicale romano sia così vivo: quando la società è in crisi, l’arte dà il meglio di sé». Lo credi davvero? «Sì, ma non lo diciamo ai discografici, che sennò ci prendono gusto e per farmi scrivere grandi canzoni mi fanno soffrire tutta la vita».