SOGNO DI UNA NOTTE D’INVERNO
Il ruolo dei coloni, il bivio fra ebraismo e democrazia
Israele e Palestina: due Stati o annessione?
Il premier Netanyahu nel 2009 aveva aperto sulla possibilità di una nazione palestinese, ma è dal 2014 che non incontra il presidente Abu Mazen. Il Likud ha da poco votato una mozione favorevole alle nuove colonie. Nel vuoto di iniziative diplomatiche alza la voce l’ultradestra, spronata da Trump
SULLA TOMBA DI FAMIGLIA è incisa una mappa d’Israele con i confini che vanno dal fiume Giordano al Mediterraneo. Così la immaginavano suo padre e gli altri che combattevano assieme a lui nell’Irgun: uno Stato ebraico che comprendesse tutti i territori senza spartirli con i vicini arabi. I giovani del movimento nazionalista Beitar ancora cantano un inno che ha per protagonista la Piccola Sarah, eroina della destra che aveva aiutato la figlia a memorizzare gli scritti di Zeev Jabotisnky, l’intellettuale del sionismo revisionista. Tzipi Livni ricorda sempre quelle parole massimaliste e di essere cresciuta da esclusa, ai margini come le idee politiche che ascoltava la sera in cucina, in un Paese dominato dai laburisti e dalla speranza – un giorno – della pace, del baratto pragmatico delle aree conquistate in cambio della convivenza. Già ministro della Giustizia, degli Esteri, a un passo dal diventare capo del governo (la prima donna un quarantennio dopo Golda Meir), Tziporah – in ebraico significa usignolo – ha rinunciato al sogno dei genitori, ha lasciato il partito conservatore Likud, si è spostata al centro – della società e della cartina geografica – e ha ammesso che sì, è necessario dividersi dai palestinesi, lasciarli costruire una loro nazione. Era il 2005. Il primo ministro Ariel Sharon aveva imposto il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza, stava pianificando la stessa operazione dalla Cisgiordania, perfino il generale contadino aveva accettato di abbandonare quelle terre, lui che considerava Israele una grande fattoria da proteggere. Da allora Sharon è morto, Livni è all’opposizione e guida un partito rimpicciolito come la fattibilità di quella che una volta veniva chiamata «la soluzione dei due Stati». I negoziati tra gli israeliani e i palestinesi sembrano aver oltrepassato la morte cerebrale, neppure collegati a
quei tubi che hanno garantito a Sharon otto anni di vita comatosa dopo l’ictus nel gennaio del 2006. Il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Abu Mazen non si incontrano dall’aprile del 2014, «la questione israelopalestinese è passata di moda», come scrive Anshel Pfeffer in un messaggio malaugurale per il 2018 su Haaretz. È il quotidiano della sinistra non rappacificata con l’idea che anche la pace è ormai come i pantaloni a zampa e Oliviero Toscani non sceglierebbe più Netanyahu e Abu Mazen quali simboli della campagna «anti-odio» di qualche anno fa: si scambiavano un bacio sulla bocca photoshoppato, adesso non si stringono la mano.
IL VUOTO DI INIZIATIVE diplomatiche è riempito dall’esuberanza ideologica dell’ultradestra, spronata dall’annuncio di Trump che ha riconosciuto Gerusalemme coma capitale d’Israele. Netanyahu non ha mai smentito il discorso del 2009 all’università Bar-Ilan in cui per la prima volta ammetteva la possibilità di uno Stato palestinese. Eppure il suo Likud ha votato poche settimane fa una mozione per sostenere «l’applicazione della legge e della sovranità israeliane in tutte le aree liberate dove sorgono insediamenti». Se dovesse diventare una norma del parlamento, significherebbe annettere le colonie costruite su colline che i palestinesi considerano parte di un’eventuale nazione. Naftali Bennett, ministro dell’Educazione e leader del partito dei coloni, manda avanti la delfina Ayelet Shaked, ministra della Giustizia, perché i primi passi verso l’annessione sono burocratici, questione di timbri che diventano sigilli sul futuro: la Cisgiordania è sotto la giurisdizione militare, mentre i quasi 400 mila coloni che vivono in mezzo a oltre 3 milioni di palestinesi rispondono alle leggi civili israeliane. Adesso Shaked chiede che qualunque nuova norma sia accompagnata da una postilla per spiegare come debba essere applicata dall’altra parte della barriera di sicurezza costruita per fermare gli attentatori suicidi durante la seconda intifada. «Abbiamo voluto ridurre la distanza tra la Giudea e Samaria e Israele», ha spiegato la ministra. La destra alla Livni-Sharon ha deciso di rinunciare al sogno di inglobare le regioni bibliche catturate ai giordani nel 1967 per timore della cosiddetta «bomba demografica»: la natalità più alta tra i palestinesi spingerebbe in modo inevitabile verso una maggioranza araba, Israele si troverebbe davanti alla scelta di perdere il suo carattere ebraico o quello democratico, con parte della popolazione privata dei diritti civili. Sarebbe la fine, sostengono anche da sinistra, del progetto sionista come l’aveva concepito Theodor Herzl. I coloni che portano sulla testa le kippà all’uncinetto sono invece convinti che sia venuto il momento di intrecciare i fili, di stendere un’unica coperta sulle terre che vanno dal fiume Giordano al Mediterraneo. E realizzare la loro Altneuland.