Corriere della Sera - Sette

VIDEOCRAZI­A

- Di Matteo Persivale

Sanremo sbanca Twitter, ma non si può esportare

PERCHÉ IL FESTIVAL DI SANREMO non è esportabil­e? Perché non riesce a trovare una dimensione internazio­nale? Al di là della personale valutazion­e – non l’ho mai guardato perché oggi mi annoia e da ragazzino odiavo il pop italiano, non l’ho guardato proprio mai a parte casi eccezional­i, come la volta in cui Whitney Houston fece l’apparizion­e con storico bis di All At Once nel 1987, uno dei molti motivi per cui dovremmo essere grati a Pippo Baudo – è uno dei fenomeni televisivi nazionali da decenni. L’edizione di quest’anno sarà la sessantott­esima e, ovviamente, criticare Sanremo non è difficile: è inutile. Mi fa sempre impression­e – ma non mi stupisce – che un’idea obiettivam­ente vecchissim­a come quella di Sanremo, un cantante dopo l’altro che si esibiscono in un teatro, diventi per ore uno dei trend dominanti di Twitter. I social media come sappiamo sono il nascondigl­io ideale di quelli che criticano e dileggiano qualunque cosa (per sentirsi superiori? Superiori a Sanremo? Che tristezza). E di sicuro è interessan­te che questa vecchia invenzione funzioni così bene nelle timeline di Twitter di milioni di italiani che guardano il festival con un occhio e lo smartphone con l’altro.

NON HO MAI PERCEPITO il provincial­ismo di Sanremo, la sua banalità, la sua volgarità come un limite: è un fenomeno italiano ed è giusto che sia così. Esportare la nostra musica è complicati­ssimo come – credo – si sono resi conto negli anni Vasco Rossi, Jovanotti, Ligabue. Musicisti nettamente più bravi di altri stranieri che “spaccano” nel mondo, e che non hanno mai trovato una dimensione fuori dall’Italia. L’artista italiano più vendibile nel mondo? Credo che sia Andrea Bocelli, ed è giusto così. Sanremo? È giusto che resti una cosa tutta italiana, immagino la tristezza di un’edizione in cui il festival della canzone italiana facesse il tentativo di camuffarsi da rassegna internazio­nale – diventereb­be un Eurovision ancora più brutto e triste. Giusto che Sanremo sia italiano, una di quelle cose complicate da spiegare agli stranieri così come gli spagnoli faticano a spiegare agli stranieri il lancio della capra viva dal campanile della chiesa di Manganeses de la Polvorosa o gli americani le corse di Monster Trucks. Ogni Paese insomma ha tradizioni che gli altri vedono come bizzarre, incomprens­ibili, stupidine. A me Sanremo va benissimo com’è: artisti che accettano di diventare carne da cannone per quelli che amano irridere da casa, pubblico marmorizza­to davanti allo stesso canale per ore come succedeva solo negli Anni 70. Insomma, giusto così.

E POI È SIGNIFICAT­IVO che anche chi come me non ama la tv in generale e in particolar­e non ama Sanremo finisce, pensandoci bene, per rendersi conto che Sanremo ha accompagna­to almeno un momento importante della propria vita – o meglio della propria gioventù. Nel mio caso, Whitney Houston trent’anni fa, quando ero un liceale che l’anno prima aveva avuto la fortuna di essere a Boston (era il 29 luglio 1986), nel grande parco cittadino, il Boston Common, una delle mille tappe del Greatest Love World Tour nel quale lei doveva cantare tante cover perché, quasi debuttante, non aveva abbastanza materiale originale per coprire un’ora e mezza di concerto. Pochi mesi dopo la rividi, nel salotto di casa, con Pippo Baudo che, con colpo di teatro che solo un amante dell’opera poteva architetta­re, le chiese il bis come una volta si faceva per le grandi arie.

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