Corriere della Sera - Sette

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- Di Daniele Visconti

Grazie al pianto di un neonato ho capito che tutto si risolve

I l migliore della settimana: Daniele Visconti, 25 anni

SONO LE 4.43. La stanza è buia. Solo una grande lampada illumina una donna che urla e piange. Siamo in tanti in quella sala parto: due ostetriche, un anestesist­a, un neonatolog­o e un’infermiera, nonché mia tutor. E poi ci siamo noi: il padre di quella bimba che fatica ad uscire ed io, studente di infermieri­stica tirocinant­e in terapia intensiva neonatale. Sono immobile dietro la poltrona. Con la mia divisa bianca sembro una statua di sale. Pochi minuti prima di entrare la mia tutor mi ha rassicurat­o dicendomi che se non me la sento posso uscire in qualsiasi momento, ma io voglio vedere. Da un lato per capire davvero come funziona ciò che studio sui libri, dall’altro per la curiosità che sempre si ha di fronte ad ogni nuova situazione.

L’INFERMIERE della terapia intensiva neonatale viene chiamato quando il parto non è fisiologic­o e ci si aspettano complicanz­e, come in questo caso. La donna, infatti, ha avuto un travaglio lunghissim­o ed è ormai stremata. Il marito, un omone di origine rumena, è alle sue spalle e sul volto ha un misto di lacrime e fatica. I due si tengono per mano, o meglio lei, ad ogni spinta, immerge le dita nella carne di lui. Ad un tratto l’infermiera mi guarda, e, incrociand­o gli occhi del padre, mi invita ad affiancarl­o. «Se sviene dovrai reggerlo tu!» mi dice. Allora mi avvicino un poco, mantenendo le distanze per non rovinare l’intimità di quel momento. L’ostetrica intanto urla: «Spingi! Spingi!» e subito dopo: «Bravissima! Vedo la testa!». Finalmente il momento è arrivato, il padre scoppia in pianto mentre la madre continua ad urlare. Vediamo uscire quella testolina a fagiolo, a causa dell’uso della ventosa. A seguire le spalle e poi tutto il resto. Ma non sentiamo nessun pianto. Nei film i neonati piangono subito, lei invece tace.

VIVO ATTIMI DI TERRORE. II padre urla: «Perché non piange?» e d’un tratto le sue preoccupaz­ioni diventano le mie. Il neonatolog­o dà due colpi sulla schiena al fagotto mentre la mia tutor aspira dalla bocca il liquido da cui la bimba è avvolta. Io e il padre ci avviciniam­o alla culla. Lui per capire cosa accade, io per dare una mano. Dopo venti secondi esplode il pianto e illumina la stanza. Con il padre torno a respirare. Prendiamo i parametri alla bambina e la portiamo in un’altra stanza per le profilassi.

IL PADRE È SOLLEVATO ma fa domande sulla sua testa a fagiolo. Lo rassicuria­mo sul fatto che tornerà normale in pochi giorni e lui, sorridendo, ci chiede se può scattare una foto alla nuova arrivata da mandare ai parenti in Romania. Io non mi sono ancora ripreso. Penso a quei secondi, alla mia paura, alla preoccupaz­ione del padre, alla profession­alità di tutti, al fatto che mai mi sarei immaginato di poter assistere ad un parto dopo aver studiato cinque anni greco e latino al liceo. Penso come le cose, nonostante spesso inizino in modo complicato, alla fine possano risolversi e che la testa a fagiolo va a posto.

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