Seconda puntata di un giallo romano che va alla ricerca del Dino Risi perduto
LA COSA PIÙ DIFFICILE nella letteratura nazionale oggi è inventare un commissario credibile. Il ruolo è inflazionato, ormai quello italiano (almeno sulla carta) è un popolo di commissari. Il commissario di La sera a Roma, il romanzo (anche) giallo di Enrico Vanzina, si chiama Margiotta ed è un massiccio cinquantenne meridionale. La prima volta che Federico, lo sceneggiatore protagonista della storia, vede il commissario quasi lo scambia per un «Gian Maria Volonté redivivo». La filosofia investigativa di Margiotta è la stessa di P.D. James, la giallista inglese che sosteneva che i moventi di un omicidio sono quattro e sembrano le voci dell’oroscopo: amore, lussuria, denaro e odio. Il più pericoloso non è l’odio, ma l’amore. Il commissario usa i delitti su cui si indaga come «un microscopio per vedere i microbi di Roma». Ma la capitale non è un posto facile da capire. Nessuno lo sa meglio di Federico che è un cultore di Roma e sa che è «la città di Nanni Moretti, ma anche quella del Canaro». Il romanzo di Vanzina è tanti romanzi assieme. Nella trama c’è tutto: sesso (etero e omo), finanza, cinema, giornalismo, aristocrazia, tradimenti coniugali, amicizie affettuose e stupende ragazze, lavoratrici del wellness (in tutti i sensi della parola), «che sbarcavano il lunario cercando di farci diventare più belli e più sani». Sullo sfondo c’è, foscamente, una vicenda alla marchesa Casati. Un intrigo complicato ma raccontato in maniera invidiabilmente scorrevole. La prosa di Vanzina si colora di toni quasi proustiani quando narra le tortuose faccende della nobiltà nera romana, in cui spicca un prodigioso marchese rock napoletano che rimpiange l’eleganza di un mondo perduto. I nobili di Vanzina sono un esercito di fantasmi invischiato nella melassa dei pettegolezzi mondani. E qui Proust lascia il posto a un altro
grande scrittore francese: «Mi tornarono in mente il visconte di Valmont e il perfido ritratto della nobiltà francese che aveva fatto Laclos nelle Relazioni pericolose ». È la seconda puntata che dedico a La sera a Roma. Lo faccio perché è un libro d’eccezione e trovo meraviglioso che questo libro fuori dall’ordinario sia stato scritto da uno degli inventori dei cinepanettoni. La storia è per metà drammatica, con una malinconia esistenziale e costituzionale: «La gran parte degli uomini rimanda le cose davvero importanti che non ha ancora realizzato nella vita a un tempo successivo, che non arriva mai». L’altra metà è umoristica, soprattutto quando si parla dei traffici professionali di Federico in cerca di un produttore che finanzi un remake contemporaneo di Io la conoscevo bene, un film che vorrebbe essere il film su Roma che non si fa dai tempi della Dolce vita. Qui Vanzina, con un efficace espediente, ricorre a persone vere dell’ambiente cinematografico. Così nella finzione narrativa compare, in carne e ossa, Aurelio De Laurentiis che, nel suo ufficio in cima al Quirinale, boccia il soggetto di Federico trovandolo troppo anni Sessanta: «Al pubblico di oggi cosa cazzo gli può interessare la storia di una cretina pugliese che arriva a Roma e tutti se la scopano?». Luciano Vincenzoni, leggendario collega di Federico, sapeva spiegare in sole tre frasi come funziona il cinema: «Tu racconti un’idea, un produttore ride, il film si fa». Ma De Laurentiis non ha riso. Il film non si fa. Il sogno di Federico era quello di girare un film su Roma alla Dino Risi, «il più grande regista di commedie di questo Paese». Ci sono tanti numi tutelari dietro questo romanzo bello e inafferrabile. Il più numinoso è Dino Risi. Leggete le pagine sulla morte di Risi dove la finzione diventa realtà, dove un Federico commosso getta la maschera e rivela quanto Enrico ci sia in lui.