Il cabaret linguistico dei politici
La classe dirigente fa battute e scrive il contrario di quello che fa (su Twitter), mettendo nero su bianco gaffe linguistiche (su Facebook). Nella bulimia digitale il dibattito si fa avanspettacolo. La destra usa il maiuscolo per urlare, la sinistra vuol
Vezzi e vizi stilistici, errori, lapsus, parole d’ordine, meme. I limiti del nostro linguaggio, ammoniva Karl Wittgenstein, significano i limiti del nostro mondo. Vale per tutti, scriventi e lettori: per questo è utile esercitare le proprie competenze come nel test di Giuseppe Antonelli e Beppe Severgnini. Per i politici però vale di più, poiché legiferano: le loro parole modificano la realtà, il mondo in cui viviamo, oltre al modo in cui parliamo, pensiamo. Libertà e autonomia di pensiero messe oggi in crisi da chi vuole imporci come dobbiamo parlare e da chi ci intossica con parole piene di odio. A sinistra si fa largo un’idea poliziesca della lingua, mascherata dal politicamente corretto, a destra si spaccia per politicamente scorretto pure il razzismo. I mezzi di comunicazione pesano. Come ha scritto Dino Messina sul 7 dell’8 febbraio, la tv degli Anni 80/90 ha impresso una svolta al linguaggio dei politici e delle campagne elettorali, prima scandite da slogan e manifesti programmatici, propagandistici, satirici. E i social network oggi? Sono una grande opportunità di comunicare senza filtri, per i politici che però non sempre calcolano gli effetti collaterali. L’immediatezza dello scrivere e del pubblicare testi che hanno lo stile del parlato cristallizza gli errori grammaticali: la leggerezza del registro orale e la pesantezza dello scritto fanno cortocircuito ( verba volant, scripta manent). Allo stesso modo la chiarezza del messaggio è minacciata dal battutismo fomentato dai social e dalla rinnovata egemonia delle immagini sul testo.
IL CONGIUNTIVO È IL CASO PIÙ EVIDENTE. Un tempo, la gaffe grammaticale in diretta tv o a un comizio era stridente, cacofonica ma passeggera. Oggi resta. Su Facebook o Twitter, come capita a Luigi Di Maio. Il congiuntivo errato indigna i puristi e fa ridere i critici, creando empatia ignorante. Per carità. Tutti tremiamo quando stiamo per servire una frase con il congiuntivo (come se giocassimo la comica partita di tennis tra Fantozzi e Filini: «Batti lei?»). Ma qui non si tratta di pedanteria, c’è un aspetto politico strettamente verbale: il congiuntivo, ci ricorda online la Treccani, è un «modo indicante la volontà, la possibilità, la proiezione nel futuro dell’azione pensata (quindi spesso usato a designare il futuro)». Che futuro ci garantisce chi ha problemi a coniugarlo? A esprimere la sua volontà? Attenzione però a fidarsi troppo di chi usa il congiuntivo in modo corretto. È il caso di Silvio Berlusconi. Il suo celebre «mi consenta» svolge la funzione dell’imperativo.
Non è una richiesta di permesso, ma la premessa di un intervento a gamba tesa che non attende il consenso dell’interlocutore. Berlusconi è ancora televisivo, come linguaggio. Ostenta anche un lessico desueto, come il dittongo «giuoco» per indicare il calcio, come da Federazione italiana giuoco calcio (Figc). Berlusconi non ama scrivere sui social, anagraficamente i suoi elettori sono altrove, ma non disdegna video e foto. Su Instagram mostra quanto è dimagrito, mentre sul profilo Facebook di Michela Vittoria Brambilla l’anno scorso fece clamore la sua foto mentre allattava un agnello salvato dalle tavole pasquali: «Fate come lui! Ha salvato cinque agnellini dalla strage di Pasqua!». A testimonianza del conformismo politico dilagante, l’idea pasquale di Berlusconi è stata usata anche da Laura Boldrini. La ex Presidenta (non amava presidentessa né presidente) della Camera, è attivissima politicamente sul fronte del genere grammaticale. Con le migliori intenzioni, ma non sempre ottimi risultati. Molti segretari donna della Camera da lei presieduta hanno protestato perché ha imposto di chiamarle «segretarie». A sinistra l’ossessione per il genere neutro partorisce mostri, come scrivere «car* tutt*» per non rischiare un plurale maschile. Siamo al partito unisex Forza asterisco?
IL CABARET DI TWITTER ha fatto i danni peggiori perché spinge il dibattito in una escalation di battute continue, uno Zelig dove spesso il senso delle frasi è l’opposto di ciò che affermano. Dopo anni di emoticon – nati per indicare il tono di una frase – i politici hanno iniziato a pensare che si possa dire una cosa negandola. La frase di Matteo Renzi «Enrico Stai Sereno» nata come rassicurazione (un hashtag), è diventata la minaccia politica per antonomasia (un po’ come il gomorresco «Sta’ senz’ penzier»). E pure Enrico Letta va in confusione su Twitter: dialogando con Zoro (Diego Bianchi in tv ha fatto la sua fortuna con i politici che cinguettano male), teme di comunicare come un «bimbominkia», cioè un adolescente compulsivo e ottuso. Su Twitter il Pd è Pericolosamente Democratico. Tutto è Potenzialmente demagogico. E monotono. Matteo Salvini è così ripetitivo che è stato creato un software che produce in automatico le sue frasi, si chiama Generatore automatico di Post di Salvini. Primo esempio: «Immigrato con mannaia e coltelli ferisce e minaccia i passanti. È “COLPA DI SALVINI” anche questo??? #Metaponto #tuttiacasa». Secondo: «Un ROM ha MESSO A FUOCO un ORFANOTROFIO per bambini. Da rinchiudere in prigione e BUTTARE VIA LA CHIAVE. Voi come state?». Notato differenze? La prima frase è del 7 febbraio 2018, la seconda un fake dal generatore gensav.altervista.org.
IL MAIUSCOLO nella scrittura digitale è la traduzione dell’urlo in un talk show. Assomiglia al font usato nelle curve negli stadi e sui muri, Ultras liberi, da estremisti di destra (ma non solo). Ricorda il font del Fronte della Gioventù. Maschio, latino. Fascista. CAPITO?