STORIA DI COPERTINA
Quanto costa un influencer? La moda? Non si lasci ossessionare dai follower Notizie o pubblicità?
Sono diventati famosi grazie a Instagram, YouTube, Facebook o un blog. Hanno conquistato la fiducia dei loro seguaci e ne condizionano i gusti: perciò li chiamano influencer. Ma i loro suggerimenti non sono disinteressati: spesso sono pagati dalle aziende. Quanto costano? Come funziona questo mercato? E quant’è trasparente?
SE NON È LA STORIA più vecchia del mondo, poco ci manca: siamo più portati ad acquistare un prodotto quando ce lo consiglia qualcuno che conosciamo. È per questo che le aziende fanno a gara, da sempre, per associare i loro marchi ai volti familiari delle star. Ed è per questo che oggi spendono una parte sempre più consistente dei loro budget pubblicitari nel cosiddetto influencer marketing. I brand chiedono ai famosi del web di fare spazio ai loro prodotti nei post su Instagram o nei video YouTube. Quanto li pagano? Cosa resta, oggi, della spontaneità originaria di internet? C’è ancora spazio per la critica? Abbiamo cercato di rispondere. Andiamo con ordine. Stando al vocabolario Zingarelli, l’influencer è «un personaggio popolare sui social network in grado di esercitare un influsso sulle scelte di settori dell’opinione pubblica». Chiariamolo subito: anche attori, sportivi, cantanti e chi più ne ha più ne metta, a volte, si fanno pagare per promuovere prodotti sui social. Ma qui ci concentreremo sui personaggi nativi digitali. Per farsi un’idea di chi siano si può consultare Audisocial, la classifica dei cento influencer italiani più influenti (scusate il gioco di parole) del blog Macchianera, costantemente aggiornata da un algoritmo che valuta il numero di follower, ma soprattutto l’engagement, il tasso di interazione. Perché il vero influencer è colui o colei che piace al punto da invogliare a commentare, con-
dividere, cliccare sui link e quindi – ed è qui che si accende l’interesse delle aziende – comprare. Quanti sono gli influencer in Italia? Non si sa. Quel che è certo è che, mentre nella parte alta della classifica i nomi sono più o meno sempre gli stessi da anni, il sottobosco è un ecosistema instabile. «C’è molto ricambio: ogni anno ci sono influencer nuovi», sintetizza Fabio Betti, fondatore di 2MuchTV, agenzia che si occupa (anche) di branded content, cioè fa da intermediario tra aziende e influencer. In sintesi, un’agenzia come questa (in Italia ce ne sono molte) riceve le richieste di chi vuole farsi pubblicità tramite gli influencer, individua le personalità adatte in base agli obiettivi della campagna e al pubblico da raggiungere, propone loro la collaborazione e poi, se questa va in porto, stabilisce le linee guida dell’attività di marketing. Tradotto: l’agenzia dice agli influencer come e quando postare i contenuti sponsorizzati. «Noi lasciamo loro libertà creativa, perché se usano il loro stile il messaggio è più efficace», precisa Betti, «ma testi e contenuti vengono controllati e approvati da noi prima della pubblicazione. E non siamo i soli a farlo».
NELL’IMMAGINARIO collettivo, però, la forza degli influencer sta nella genuinità dei loro consigli. Se è l’agenzia a dire come e quando postare, e se l’azienda paga, cosa resta di questo mito? «Gli influencer importanti dicono molti no», spiega Betti, «sono i primi a sapere che non conviene rovinarsi la reputazione consigliando il prodotto sbagliato. Per quelli piccoli il discorso è diverso, ma loro di solito hanno a che fare con richieste semplici, come post in cambio di omaggi». Chi sta nel mezzo valuta di volta in volta se il gioco vale la candela. Gli influencer camminano su un terreno scivoloso: da una parte vogliono restare genuini per conservare la fiducia dei seguaci, dall’altra coltivano il desiderio (legittimo) di guadagnare collaborando con le aziende. «L’influencer deve sempre sembrare autonomo nelle sue scelte: le marchette troppo palesi lo danneggiano», sintetizza Fabio Mazzocca, presidente dell’agenzia di digital PR WakeUp, tra le prime a fare influencer marketing in Italia. «D’altro canto, questo ormai è un business: nella mia esperienza, è raro che qualcuno si rifiuti di promuovere un prodotto».
MA QUANTO costano i servizi di un influencer? La domanda è semplice, la risposta no. Perché il tariffario non è fisso: cambia in base al brand, alla campagna e a decine di altre variabili. Proviamo però a tracciare qualche paletto. Secondo Betti, i piccoli (circa 100mila follower) guadagnano da 0 a 500 euro a collaborazione (e quindi lavorano anche accontentandosi degli omaggi); i medi (circa 500mila follower) da 500 a 5mila euro; i grandi (oltre un milione) non prendono neanche in considerazione un lavoro se il compenso non è di almeno 2.500 euro, ma possono strapparne anche 10mila. Nel mondo della moda le tariffe sono in media più alte, ma gli ordini di grandezza sono gli stessi. Purché i follower siano reali, cosa che le agenzie verificano con appositi software. Cosa giustifica queste cifre? La precisione con cui si riesce a intercettare il target desiderato e l’efficacia della campagna: se scelti bene, gli influencer possono far aumentare in modo visibile e rapido gli acquisti online di ciò che pubblicizzano. Ma, attenzione, nella maggior parte dei casi il selfie con il prodotto in mano non basta: oggi le aziende chiedono pacchetti di contenuti (ad esempio un post, una Storia Instagram e un video). E chi fa sul serio non paga a prestazione, ma assolda le web star per un certo lasso di tempo, chiedendo loro di fare storytelling di un prodotto. Chiacchierando con gli influencer, in effetti, il concetto di “storia” torna spesso: inserire ciò che sono chiamati a sponsorizzare in una narrazione coerente con il loro stile sembra essere la loro strategia per conservare sempre la credibilità, anche quando si lavora per conto delle aziende. Pensando al mondo della moda, che è tra i più redditizi, è inevitabile chiedersi se an-
FOLLOWER: SEGUACI DI UN PROFILO FACEBOOK, INSTAGRAM O TWITTER STORIA INSTAGRAM: VIDEO O FOTO CHE RESTANO ONLINE PER 24 ORE. ENGAGEMENT: LIVELLO DI INTERAZIONE TRA FOLLOWER E PROFILI SOCIAL #AD, #SPONSOR: DICITURE USATE PER SEGNALARE CONTENUTI A PAGAMENTO
che i grandi marchi si servano degli influencer. Nessuno, nell’ambiente, ne parla volentieri, ma abbiamo capito quali sono le strategie delle griffe più famose. A febbraio, ad esempio, il sito specializzato Business of Fashion ha riportato che Dolce & Gabbana offre abiti e accessori, ma non compensi in denaro, agli influencer con cui collabora. Un altro grande marchio ci ha spiegato, in via confidenziale, che paga gli influencer per i contenuti postati sul proprio canale social ufficiale. Se poi quelli vogliono replicare sui propri social, tanto meglio. Per chi vive di visibilità, però, vige una regola: associarsi ai grandi nomi è un affare. Per questo gli influencer a volte accettano di sponsorizzare gratis i prodotti di fascia alta. E i marchi ne approfittano. Ma c’è anche l’altro lato della medaglia: alcuni personaggi si atteggiano a collaboratori di un brand celebre, pur non essendolo affatto. Un danno d’immagine potenziale che preoccupa le case di moda, anche per motivi legali. Il carattere pubblicitario dei post deve essere dichiarato, come vedremo.
I GRATTACAPI dei grandi brand non sono niente in confronto a quelli di chi si preoccupa di tutelare i consumatori. In Italia il dibattito sulla trasparenza nell’influencer marketing è esploso nell’estate del 2017, quando l’Antitrust ha ammonito alcuni marchi e ricordato che per legge la pubblicità dev’essere sempre chiaramente riconoscibile, anche sui social. Gli influencer hanno recepito il messaggio? Pare di sì: a fine anno l’Autorità si è detta soddisfatta dei risultati ottenuti (pur precisando che continuerà a monitorare il fenomeno). Segnalare le collaborazioni pagate con scritte esplicite o con hashtag come #ad o #sponsor sembra ormai una prassi. E così qualcuno – agenzie in testa – minimizza la questione, ripetendo che la trasparenza conviene anche agli influencer, perché li aiuta a salvare la faccia davanti ai follower. Ma per l’Unione Nazionale Consumatori quanto fatto non basta (a dicembre il presidente Massimiliano Dona ha commentato l’uscita dell’Antitrust twittando: «#pannicellocaldo su opacità dell’ #influencermarketing!»). Il punto è questo: può bastare l’hashtag #ad per far capire agli utenti (compresi quelli meno smaliziati) che se il loro beniamino gli consiglia quella borsetta, quel robot da cucina o quel videogame, lo fa per lavoro e non per hobby? E soprattutto: agli utenti interessa? È questa la domanda drammatica. Soprattutto per chi fa il giornalista e non il pubblicitario.