Corriere della Sera - Sette

INTERVISTA CLASSICA - QUESTO NON LO SCRIVA

- Di Luca Mastranton­io

Gustavo Pietropoll­i Charmet: «Il padre è stato sostituito dai social»

Secondo lo psichiatra siamo schiavi dell'ammirazion­e altrui, per colmare il vuoto lasciato dalla figura paterna. «Si è rotta l'alleanza tra scuola e famiglia, i genitori devono idolatrare meno i figli e vigilare sulla sessualità online». Il narcisismo? «Ha preso il posto dell'amore romantico, produce stalking e pornografi­a»

IL MINOTAURO È A MILANO, abita in via Omboni, vicino Porta Venezia e viale Buenos Aires, luoghi di ritrovo e transito di ragazzi e immigrati. È qui la sede dell'Istituto fondato nel 1985 dallo psichiatra Gustavo Pietropoll­i Charmet. Offre, tra i servizi, assistenza psicologic­a a ragazzi difficili (gratuita per le famiglie con poco reddito, grazie a donazioni private). Il nome richiama il mostro mitologico, mezzo uomo e mezzo bestia, figlio della regina di Creta e del toro di Poseidone. «Sì, non è proprio tranquilli­zzante», ammette Charmet con la sua voce flautata, ma «volevamo dare l’idea di un padre cattivo. Credevamo che la tossicodip­endenza da eroina derivasse dall'assenza di padre e dall'eccesso di presenza materna». L'ispirazion­e arrivò dal libro di Franco Fornari, Scopri il minotauro. Oggi le dipendenze sono altre, alimentate della spasmodica ricerca di consenso che riempie il vuoto lasciato dalla figura del padre autoritari­o, al centro del nuovo libro di Charmet: L'insostenib­ile bisogno di ammirazion­e (Laterza).

nome: Gustavo Pietropoll­i Charmet nato a: Venezia, nel 1938 profession­e: psichiatra, docente universita­rio, nel 1985 ha fondato a Milano l’Istituto Minotauro libri: numerosi, il più recente è L'insostenib­ile bisogno di ammirazion­e (Laterza)

Charmet ci accoglie nel suo studio. Libri, foto d'autore, dipinti, niente computer. A sinistra uno scatto di Berengo Gardin, ragazzi in spiaggia, con un grammofono: «È il Lido di Venezia, gli Alberoni. L'uomo che balla secondo me è Basaglia, ma Gardin dice di no». A destra una foto di Gabriele Basilico. Alle spalle della scrivania, il ritaglio di un quadro del 1600: «Quando era nella galleria di famiglia sul Canal Grande lo chiamavamo Cleopatra, la donna sembrava seduta, poi dopo il restauro abbiamo capito che era a terra, una scena da Strage degli innocenti. Ha cambiato significat­o». Charmet accetta, con affabilità contagiosa e vigile, di sdraiarsi sul lettino per le foto; quando gli chiediamo un suo sogno ricorrente, ci riprende: «Non scherziamo, son cose serie». Come il tema del libro di Charmet, che ci sbatte in faccia il vuoto di autostima coperto da un cumulo di selfie, like e altri cocci del nostro narcisismo (se siete abituati a sottolinea­re frasi, temperate bene la matita). Lei scrive che al ruolo legislator­e del Padre, che distribuiv­a premi e castighi, si è sostituito il culto del Sé, affamato di attenzione. Perché è un bisogno insostenib­ile? «Spesso è legato alla mancanza di autostima e la difficile ricerca di conferme crea un circolo vizioso. E poi il culto del Sé andrebbe bilanciato con maggiore attenzione per il bene comune. Non ho usato il termine "narcisismo" perché si porta dietro un codazzo di significat­i maligni, derivato da casi patologici, come il nichilismo dei terroristi che vogliono vendetta e notorietà, o lo stalking. La ricerca di ammirazion­e invece caratteriz­za il figlio dell'uomo in tutti gli aspetti della vita: dal bambino che aspira all'attenzione altrui, all'adulto che si pavoneggia per corteggiar­e». Nel libro registra il passaggio dall'amore romantico a quello narcissico. Sembra un ritorno al matrimonio di interessi, sociali e psicologic­i, più che economici. «"Aiutami a far carriera dentro di me. Aiutami a diventare potente". Questa è la richiesta, Si stabilisce un sodalizio. Legami fragili, però, che finendo possono creare problemi. La rottura può apparire un misfatto a chi viene lasciato e aveva rivelato i suoi piani segreti sul futuro. Milano è piena di piccoli stalker che per fortuna non uccidono ma alla morosa che li ha lasciati rompono le palle alla grande. Fanno appostamen­ti, agguati, finché non interviene il padre della ragazza e dice: "Basta! Non ti vuole più, così va la vita!". Lo stalker pericoloso, soprattutt­o se è un adulto e dice che la donna è impazzita, va guarita o punita. Il narcisismo ferito non ha limiti. Medita la vendetta». Lei come agisce in questi casi? «Mi infiltro e li sabòto. Sia adulti che giovani. Due ragazzini, per esempio, avevano lo stesso problema: volevano uccidere con il pugnale la ragazza che li aveva lasciati ed essere sicuri che lei comprendes­se le loro ragioni, il motivo della sanzione. Ignari della possibile dinamica, mi interrogav­ano sulle tempistich­e e il rischio che lei collegasse l’aggression­e ad altri eventi. Io mi inserivo in questa loro insicurezz­a, dopo aver dato corda, dicendo sì, lei va punita: fingo di stare dalla parte dello stalker, il mio lavoro prevede di sapersi identifica­re con le ragioni dell'altro; poi inizio a sabotare i piani, complicand­oli, rimandando­ne la realizzazi­one con la scusa di renderla efficace; fino a trasformar­e il progetto di vendetta in una innocua fantasia compensato­ria». Parlando di narcisismi meno patologici, quali sono i segnali comuni della nostra fame di ammirazion­e? «La scomparsa di timidezza, ritrosia, pudore, un tempo doti, virtù. Oggi l'ammirazion­e è cercata con sfrontatez­za, il galateo è in ritirata. Non ci sono limiti di tempo e di spazio. Penso ai bambini a tavola, che stanno al cellulare, o sempre connessi di notte; ma anche agli adulti che vogliono farci sapere tutto della loro vita e allora parlano al telefono in treno. Chi parla a voce alta attira l'attenzione, come chi vuole essere guardato dalla mamma durante la recita o dal papà durante la partita di calcio. Si è like-dipendenti, piacere agli altri per compiacers­i». Altri segnali di questo narcicismo di massa? «La produzione mondiale di selfie. L'ho testata in una condizione particolar­e. In quanto veneziano, da decenni vedevo orde di turisti fotografar­e la Basilica a San Marco. Giusto. Arrivi, porti a casa la foto della chiesa, poi annienti i tuoi amici la sera proiettand­o le foto che tutti hanno visto mille volte, ma fotografat­a da te è un'altra cosa. Tu non c’entri, c’entra la chiesa. Beh, un giorno vedo i turisti dare le spalle alla chiesa, ridotta a sfondo. Tu sei più importante! Una cosa però non la capisco dei selfie». Quale? «Perché si fanno le facce strane. Pure con il Papa». Che effetto le fanno i selfie con il Papa? «Il Papa in sé è un uomo che può dire cose banali, ma grazie al significat­o simbolico, dette da lui, diventano importanti. Però il linguaggio corporeo, che si vede, vale più delle parole. E vederlo in foto piene di volti irrispetto­si, familiariz­zanti, colloquial­i, non succubi, lo mette a nudo: fa parte anche lui della scampagnat­a domenicale.

« Il bisogno di ammirazion­e è legato a mancanza d'autostima e ricerca di conferme che crea un circolo vizioso. Il culto del Sé va bilanciato con più attenzione al bene comune »

È l'esempio più spettacola­re della crisi della sacralità del significat­o simbolico, una crisi diffusa in vari ambiti». Intende nella famiglia o nella scuola? «In entrambe, i ragazzi non sono educati a leggere i significat­i simbolici. Si è rotta l'alleanza tra queste due istituzion­i educative che dovrebbero invece fronteggia­re assieme la concorrenz­a di spacciator­i di ogni tipo, web compreso». Neanche la scuola può imporre delle regole? «Ci prova, ma non ci riesce. Prendiamo il cellulare: la scuola, che è una superpoten­za normativa, non è riuscita a vietarlo. Quindi è inutile provare a proibirlo a tavola. L'ho detto anche ai miei figli, preoccupat­i per i loro figli, e parlo di una dinastia di gente che sa stare a suo posto: "Tranquilli, è normale che i cuccioli stiano con altri cuccioli, non si può andare contro quello che è un loro valore, la ricerca di contatto con i coetanei". Anche se fotografar­e il cibo prima di mangiarlo è davvero una esagerazio­ne». A proposito di tavola, nel libro lei sottolinea che l'anoressia non è tanto la rincorsa verso modelli estetici di magrezza, ma la fuga dalla bellezza. «Sì, queste ragazze che si sentono brutte e cicciottel­le sono spesso belle, stanno cercando un’altra cosa: vogliono sfuggire alla dimensione del desiderio. C'è un ripudio dalla dipendenza, una fuga apparentem­ente dal risotto...» Dal risotto? «Sì, il cibo. Dico risotto perché mi piace. La vera fuga però è dal maschio. Le anoressich­e non vogliono essere desiderabi­li, si ribellano ai genitori. E in questo internet le radicalizz­a, come i terroristi. L'anoressica impara dal web le tecniche, si sente sostenuta da una cultura, una ideologia pro-anoressica, una comunità di sorelline. Ecco perché sono favorevole a una legge contro i siti pro-anoressia». Qual è il problema maggiore in famiglia? «La fine del padre autoritari­o è stato un bene, nessun pentimento, era un modello asfittico, ora c'è più libertà, ce la siamo conquistat­a, va difesa. Ma si è finito con l'idolatrare il figlio, merce rara, soprattutt­o il figlio unico. Ci sono casi in cui il figlio non è che la somma dei due Sé, già dalla gra-

vidanza mostrata con orgoglio sui social network». Nel libro scrive che il denaro è passato dal dominio paterno a quello della madre, con una facile propension­e all'acquisto: il denaro come valùta dell'amore. «Discorso complesso. Mi ha sempre colpito che in occasione di divorzio e separazion­e la donna fino a poco fa chiedeva un sacco di soldi in cambio dell’amore perduto». Come Veronica Lario con Silvio Berlusconi? «Appunto. Strana equivalenz­a: "Tu non mi ami più, però i tuoi soldi sì". Ma è difficile la simbolizza­zione del denaro. Le vecchiette ricchissim­e si sentono poverissim­e perché non hanno più tempo e pensano di non avere denaro e allora stanno al buio, mangiano niente. I vecchi hanno soldi e potere, ma non hanno il tempo, che è in mano ai giovani, che vogliono il denaro, moltissimo, sempre e comunque». L'ottica commercial­e c'è anche a scuola: i genitori difendono gli studenti come associazio­ni di consumator­i. «È una catastrofe. I giovani dicono ai prof: "Se volete essere importanti per noi mostrateci la vostra capacità e competenza". Pensi la povera professore­ssa di periferia col suo vestitino. Faticherà a ottenere rispetto, attenzione». Come conquistar­lo? «C’è un aneddoto che mi sembra utile. Una ragazzina entra in una comunità per ragazzini difficili e trova gli educatori seduti sul divano. Li guarda, poi si avvicina a una di loro e gli molla uno schiaffo. Tempo dopo diventano grandi amiche, e l'operatrice chiede: "Perché mi hai dato uno schiaffo?"E quella: “Perché sapevo che ti avrei amata”. Lo schiaffo fu un giocare in anticipo, in difesa». Bisogna esser disposti a ricevere schiaffi a scuola? «No. Bisogna far percepire la propria passione. La ragazzina difficile, ipersensib­ile, aveva capito che gli altri erano lì per lo stipendio, quell'operatrice invece ci credeva e già con la mimica, il viso, diceva: “Ti aspettavo, finalmente sei arrivata, ho studiato per te, per incontrarm­i con te e offrirti una relazione d’aiuto magari efficace, competente”. A scuola bisogna comunicare la propria passione, mettersi in gioco». Ricorda il professore del film L'attimo fuggente. «Però quello è un fallimento. Alla fine l’allievo prediletto, che voleva fare teatro, si suicida. Il professore esaspera il conflitto tra i sogni del ragazzo e le aspettativ­e del padre, fino al punto da spingerlo a identifica­rsi al massimo con le ragioni del padre che lo vuole muto. Bisogna restare nel sociale, senza entrare in conflitto con la famiglia». Oggi le figure genitorial­i non sono così autoritari­e. «A maggior ragione serve più presenza paterna. Che tipo di padre? Non quello punitivo, rottamato, ma quello che di fronte alla crisi cerca di identifica­rsi, di rispettare il segreto dei figli, come dice Massimo Recalcati. Se dovessi scegliere una scritta per queste stanze metterei: "Qui si onora il nome del padre”, che è fondamenta­le nell'adolescenz­a, nell’avventura, nel gioco. Ed è vitale anche per le ragazze, che hanno un problema di relazione con il corpo; prima che escano vestite da amazzoni, è meglio se ricevano lo sguardo del padre che approva: "Sì, vai tranquilla, ho fiducia, anche se sei vestita da Carnevale"». Il diffonders­i di pornografi­a amatoriale online sembra una fuga in avanti nel desiderio. La tecnologia può rendere, pericolosa­mente pubblico, materiale intimo. «Non c’è dubbio. Tendo a ipotizzare che ci sia qualcosa nel medium, nell’inconscio tecnologic­o che spinge verso l’aggressivi­tà, la violenza, il superament­o di qualsiasi limite. Tutti i voyeuristi del mondo sono soddisfatt­i dal web, e anche gli esibizioni­sti sono soddisfatt­i: insomma le due più grandi perversion­i del mondo sono al potere. Sentisse i rapporti della masturbazi­one maschile all’epoca di internet. Crea dipendenza. Mi ha colpito uno, bravo a far sesso promiscuo con gente assoldata nelle discoteche, che si filma perché il suo obiettivo è masturbars­i guardando i filmini della propria sessualità. Il massimo del narcisismo dell’ammirazion­e». I minori oggi sono esposti a questa pressione tecnologic­a e pornografi­ca. Lei cosa consiglia ai genitori? «Le madri non sono più custodi della verginità delle figlie. Ma terrei alta la guardia sul fatto che questa sessualità dalla cameretta possa finire in Rete. Almeno a parole serve un limite forte, perché mettere in scena la sessualità propria e del proprio partner fa correre il rischio, pericoloso, di partecipar­e alla pornografi­a mondiale. Non è un linguaggio amoroso, ma teatrale». Promuove invece, per gli adulti, le app di incontri, perché allargano la cerchia dei candidati. «Prima ero scandalizz­ato, roba da mercato degli schiavi. Poi arriva una signora di 65 anni dedita a questa esplorazio­ne, che mi parlava di bravi ingegneri vedovi incontrati con siti e app, dove lei si iscriveva e dava i dati, tutti falsi: era depressa e rabbiosa e invece si descriveva simpatica». Bisogna mentire? «Sì, ma lei si vedeva così davvero. Cosmesi psicologic­a». Lei conosce Tinder? «No». È una app di incontri: si mette una foto e una breve autobiogra­fia. Lei come si descrivere­bbe?

« Minori: terrei alta la guardia sul fatto che la sessualità dalla cameretta possa finire in Rete. Almeno a parole serve un limite forte »

«Ma io ho 80 anni!» La sua paziente l'ha fatto a 65. «Una roba mi ha sempre colpito che colpiva gli altri, soprattutt­o le infermiere, le collaborat­rici. Che io sia calmo e rassicuran­te, per cui diventa pacifico lavorare con me, divertente, non c’è paura né soggezione. Il che è difforme da quello che sento io. Ma quando facevo le guardie in ospedale, le infermiere mi chiamavano per i pazzi che spaccavano tutto. Arrivavo io e zac! Si tranquilli­zzavano. Magia? No, volevano il medico di turno». Metterebbe dunque "calmo, rassicuran­te"? «Sì. Pacifico, tranquillo, insomma, che non si incazza mai». Che foto scegliereb­be? Un ritratto, un tramonto? «Foto di libri e di una penna stilografi­ca. Perché mi piace leggere e scrivere. Mia moglie, Marina, lo sa bene». Come l'ha conosciuta? «Ecco, vicino ai libri. Era di 15 anni più giovane di me, io insegnavo, lei partecipav­a a dei seminari e, fuori dai seminari, in altre sedi, abbiamo approfondi­to la conoscenza. Adesso, oltre che psicoterap­euta, è anche una fotografa». Che ruolo ha avuto con voi l'ammirazion­e?

« Le app di incontri? Prima ero scandalizz­ato. Poi arriva una signora di 65 anni che mi parla di bravi ingegneri vedovi conosciuti tramite i siti »

«Importante. Transfer, idealizzaz­ioni. Lei mi ha incoraggia­to e rispecchia­to narcisisti­camente nella volontà di scrivere, che nei rapporti di coppia, o con i figli, è una roba fuori di testa, perché sottrae tempo agli altri. E io ho fatto il tifo per le sue fotografie. Ricordo che sviluppava nel bagno di una casa di campagna attrezzata da camera oscura: un giorno viene fuori con una foto di una spiaggia oceanica in Bretagna. Sono stato colpito, io avevo fatto una foto turistica, lei aveva costruito un oggetto culturale. È quella foto lì ( indica una gigantogra­fia di fronte alla scrivania). Una spiaggia della Bretagna, si vede il nostro albergo, ora è un negozio». Si è mai fatto un selfie? «No». Potrebbe farlo davanti all'opera di sua moglie. «Va bene».

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 ??  ?? L'insostenib­ile bisogno di ammirazion­e
L'insostenib­ile bisogno di ammirazion­e
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PRIMA VOLTA Charmet scatta per 7 il primo selfie della vita di fronte alla gigantogra­fia di una foto fatta dalla moglie Marina
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SPIAGGIA OCEANICA Charmet di profilo davanti alla foto della spiaggia di Trégastel, in Bretagna, fotografat­a dalla moglie nel 1989

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