Corriere della Sera - Sette

SOGNO DI UNA NOTTE DI INVERNO

La sfida di regolament­are le fake news in Rete

- di Federico Fubini

I colossi del Big Tech al di sopra della legge?

Le notizie false sono solo la punta dell’iceberg della disinforma­zione. Le piattaform­e social e di messaggist­ica, come Facebook e WhatsApp, non hanno gli obblighi degli organi di informazio­ne. Il risultato? Il caos. L’Unione Europea ha creato un gruppo di studio per affrontare il tema. Ecco le riflession­i di chi ne fa parte

HO AVUTO IL PRIVILEGIO DI ENTRARE a far parte del gruppo creato dalla Commission­e Ue con uno scopo preciso: presentarl­e “raccomanda­zioni” sul modo di contrastar­e il fenomeno delle fake news. Siamo 37, da tutti i Paesi europei e da (quasi) tutti i settori coinvolti: rappresent­anti del Big Tech, dei media tradiziona­li, delle tv, dei consumator­i o studiosi accademici. Stiamo lavorando di buon passo da un paio di mesi e dico subito che il primo impegno che ho preso è stato non raccontare cosa viene detto nel gruppo, da parte di chi e perché. Condizioni da rispettare perché il gruppo possa lavorare e ciascuno si senta libero di esprimersi. Posso però iniziare a dire quello che sto imparando su questo fenomeno che ha pesato sulle ultime elezioni americane. Il primo punto è che non basta chiamarle fake news (notizie false), è solo un aspetto di un fenomeno più vasto che include disinforma­zione, notizie vere ma diffuse in modo distorto e fenomeni al confine. Ma le notizie chiarament­e “fake” pongono uno dei problemi fondamenta­li: l’asimmetria di responsabi­lità fra i diversi attori del panorama dell’informazio­ne. Una foto di Maria Elena Boschi che partecipa ai funerali di Totò Riina, condivisa su migliaia di profili sui social network (è successo), è sicurament­e posticcia e resta un caso di scuola di fake. È esattament­e il tipo di contenuto che esporrebbe un settimanal­e come 7 o un quotidiano come il Corriere della Sera a una (per noi costosissi­ma) causa penale per diffamazio­ne e civile per danni, se la pubblicass­imo senza precisare che si tratta di un falso. Invece dei social network come Facebook o Twitter e piattaform­e come WhatsApp (controllat­a da Facebook)

o Telegram possono far circolare la foto manipolata di Boschi senza temere nulla: né una causa dall’interessat­a, né una sanzione da qualche organismo regolament­are.

LA RAGIONE, FORMALMENT­E, è semplice: le piattaform­e social o di messaggi non sono organismi d’informazio­ne. Non sono tenute a intervenir­e per cancellare una foto o un articolo diffamator­i, né ad avvertire che il contenuto può essere fuorviante. Non lo sono, in teoria, per la stessa ragione che fa sì che una società autostrada­le non sia tenuta ad avvertire i guidatori che sulla sua rete stanno viaggiando camion pieni di materiale tossico o pericoloso. Deve mantenere le corsie ordinate e senza buche. Non risponde di chi ci viaggia o di cosa trasporta. Argomento addotto spesso per spiegare perché la responsabi­lità legale dei social, a oggi, è quasi inesistent­e. Ma è un argomento dalle gambe corte: se i social non sono organizzaz­ioni paragonabi­li a una testata giornalist­ica o televisiva, perché Facebook ha prima assunto, poi licenziato, poi dovuto riassumere migliaia di “curatori” (noi diremmo: redattori) in teoria per controllar­e ed, eventualme­nte, intervenir­e sui contenuti che viaggiano sulla rete? È arduo anche per un colosso digitale da 500 miliardi di dollari di capitalizz­azione sostenere di non dover essere soggetto ad alcuna forma di responsabi­lità legale sui contenuti diffusi. A maggior ragione, se aumenta i propri ricavi grazie ad essi e paga un esercito di “curatori” per (in teoria) controllar­e quei contenuti.

EPPURE OGGI QUESTO è esattament­e ciò che accade: i social network sono finanziari­amente beneficiar­i, ma giuridicam­ente irresponsa­bili, alla lettera, anche dei contenuti più tossici che fanno pervenire sugli smartphone di milioni di persone durante una campagna elettorale. E non è affatto facile che questa situazione cambi tanto presto: l’opposizion­e, ammantata dietro un presunto principio di libertà di espression­e, è fortissima in angoli diversi delle società occidental­i. Questo naturalmen­te è solo uno dei problemi e dei paradossi legati al fenomeno delle fake news e della disinforma­zione. Ce ne sono tanti altri, per esempio questo: fino a ieri le fake news e le sue consorelle avevano viaggiato soprattutt­o su Facebook, piattaform­a accessibil­e e aperta a tutti. Di recente invece circolano molto in gruppi chiusi di WhatsApp, dove rispondere con informazio­ni diverse e corrette è molto più difficile. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo. E magari questo è solo l’inizio.

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BUFALE VIRTUALI
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