Corriere della Sera - Sette

GIORNI DI PIOMBO

Il sequestro, la paura, la trattativa, il ritrovamen­to del corpo. L’assassinio di Aldo Moro sancisce la fine drammatica della Prima Repubblica. Un giornalist­a di lungo corso ricorda quella primavera del 1978 in due speciali televisivi, il 12 e 14 marzo su

- di Andrea Purgatori

La terribile lezione di Aldo Moro

NELLE QUINDICI ORE PIÙ CUPE della Repubblica, tra scuole chiuse, saracinesc­he abbassate e strade deserte, ci fu chi immaginò un’Italia alla vigilia della guerra civile o di un golpe militare. Erano le nove del mattino del 16 marzo 1978, a Roma il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro era stato appena sequestrat­o da un commando delle Brigate Rosse e la sua scorta di cinque uomini liquidata con una novantina di colpi sparati da mitragliet­te e pistole. L’attacco più devastante lanciato dal terrorismo al cuore dello Stato, la crisi istituzion­ale più grave dal dopoguerra. Ecco, da quel momento e fino a notte inoltrata, per quindici lunghe ore appunto, la gente si chiuse in casa temendo che la classe politica, le forze dell’ordine, le strutture del Paese nel suo insieme, non fossero in grado di reggere l’urto micidiale di

quella sfida. E tutto precipitas­se. Quarant’anni dopo, di quelle quindici ore rimangono solo ricordi sbiaditi. Ma i fantasmi, no. I fantasmi continuano ad agitare persino gli storici, impedendo una ricostruzi­one compiuta e trasparent­e dei cinquantac­inque giorni che seguirono, fino alla morte di Moro. Fu una storia tutta italiana? O l’Italia fu il banco di prova di un braccio di ferro tra due blocchi, quello atlantico e quello sovietico, che per identici motivi considerav­ano il nostro Paese una frontiera intoccabil­e? La bilancia dei fatti pende decisament­e verso la prima ipotesi. Ma i dieci anni che precedette­ro quel giorno e quelle quindici ore, ci dicono che bombe e stragi non furono opera solo di mani fasciste e italiane, e il terrorismo rosso che ne seguì aveva maestri e interessi, contatti e alleanze che coinvolgev­ano, magari solo sul piano logistico, servizi segreti occidental­i e orientali, e persino mediorient­ali. Eppure il delitto Moro, nella sua spietatezz­a, fu uno spartiacqu­e che avrebbe cambiato per sempre la storia politica del Paese. E fu anche l’inizio della fine della lotta armata, seppur con una coda di pura macelleria criminale. Ma, chissà perché, parlare oggi di Democrazia Cristiana e Partito Comunista, di “linea della fermezza” o “linea della trattativa”, dello scontro tra chi come papa Paolo VI e Bettino Craxi tentarono una via umanitaria per salvare l’ostaggio detenuto nella “prigione del popolo” e chi si oppose a ogni concession­e alle Br, è un po’ come sollevare la polvere nascosta sotto il tappeto. Irrita, infastidis­ce, fa storcere il naso, in un mix di rimozione e rifiuto che ha sempre segnato la nostra incapacità o non

volontà di fare i conti con i passaggi e i misteri irrisolti più sanguinosi e velenosi nella storia della Repubblica. Ma il passato insegna e non svanisce.

DIFFICILE RITROVARE DATI PRECISI per fotografar­e quella stagione. Ma basterebbe ricordare che nei dieci anni che precedette­ro il delitto Moro e in quelli che ne seguirono, furono alcune decine di migliaia le persone accusate di reati eversivi. Quarantami­la secondo Franco Piperno, che fu tra i fondatori di Potere Operaio. Molti ne uscirono subito, tanti furono processati, alcuni vennero assolti, altri condannati. Per non parlare dei morti, spesso vittime considerat­e di serie B, che preferiamo dimenticar­e. Sono numeri che fanno impression­e, e raccontano di uno scontro che non può essere liquidato con la geometrica potenza espressa dalle Br in via Fani. Quelli erano anni, mesi, settimane, giorni, in cui la violenza politica strisciava ovunque senza soluzione di continuità, limitando l’agibilità fisica delle città, delle piazze, a Nord e a Sud. Quelli erano anni in cui una classe politica pur di qualità e livello nettamente superiore a quella di oggi, sembrava inadeguata a fronteggia­re la sfida. E all’inizio degli anni Novanta si dissolse con Tangentopo­li, considerat­a da molti la fine della Prima Repubblica. Che invece probabilme­nte si chiuse il 9 maggio 1978 in via Caetani, con il ritrovamen­to del cadavere di Moro. Ecco, persino questo passaggio estremo è ancora in discussion­e. Persino su chi arrivò per primo in quella stradina del centro di Roma dove i brigatisti avevano parcheggia­to la Renault 4 col corpo di Moro chiuso nel bagagliaio, tra la sede del Pci di via delle Botteghe Oscure e quella della Dc in piazza del Gesù, non è stata fatta ancora chiarezza. Figurarsi sul resto: le lettere scritte nella “prigione del popolo”, gli emissari in pista per l’inutile trattativa, le indagini mal condotte o volutament­e buttate via, le connession­i con la criminalit­à organizzat­a… Chi oggi prova a paragonare quei giorni di piombo al rigurgito di violenza politica nella recente campagna elettorale non sa di cosa parla. O non ha mai letto un libro e nemmeno un articolo di giornale.

Giornalist­a, classe 1953, è stato corrispond­ente di guerra. Ha lavorato a lungo al Corriere della Sera. Conduce Atlantide su La7 e scrive per l’Huffington Post.

ERANOANNI, MESI, SETTIMANE, GIORNI IN CUI LA VIOLENZA POLITICA STRISCIAVA OVUNQUE SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ

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9 MAGGIO 1978 La Renault 4 in cui venne ritrovato il corpo del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. L’auto era in via Caetani a Roma, tra la sede del Pci (via delle Botteghe Oscure) e quella della Dc (piazza del Gesù)
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