Corriere della Sera - Sette

GENERI DI IMPORTAZIO­NE

Dai video dei mattatori americani alle scene improvvisa­te nelle nostre città. Nei caffè, nelle librerie e nei teatri torna la stand-up comedy, e fa concorrenz­a a cabaret e monologhi impegnati. Siamo andati a vedere se i comici fanno ridere

- di Irene Soave

La tribù dei comici da bar

NIENTE DIFETTI FISICI, dizioni storpiate, parrucche. In breve, niente personaggi. Dimenticat­e i mitici Quelo e Lorenzo di Corrado Guzzanti, i più recenti Antonio Razzi e Napalm51 di Maurizio Crozza, il filone di cabaret tv che da Gaspare e Zuzzurro arrivava a Ficarra e Picone, e pure i monologhi impegnati di Paolo Rossi e Lella Costa. Nella comicità italiana è in atto una rivoluzion­e dal basso: quella della stand-up comedy. Gli ingredient­i sono scarni: lo sfondo è una parete, l’unico attrezzo di scena è un microfono, i padri fondatori sono gli americani Louis C.K. (ancora stella del genere, nonostante lo scandalo molestie abbia coinvolto anche lui), George Carlin, Jerry Seinfeld. Negli Stati Uniti è una tradizione da quasi un secolo, ma solo da poche stagioni è nata in Italia una generazion­e di comici che la interpreta­no consapevol­mente. Esibendosi in bar e librerie prima che nei teatri e in tv; portando in scena se stessi e i propri guai, spesso generazion­ali; sfidando dal vivo il pubblico e la sua distrazion­e. Qualche nome. Il più noto è Saverio Raimondo, romano, 34 anni, che conduce una striscia di news satiriche sul canale Comedy Central (dal 13 aprile) e ha cofondato due “comedy club” a Roma e Milano. Il milanese Luca Ravenna, già autore di Quelli che il calcio, classe 1987, e il coetaneo Edoardo Ferrario, alle spalle studi di Giurisprud­enza e Quelli che il calcio anche lui; Filippo Giardina, 43 anni, fondatore già nel 2009 del dissacrant­e collettivo Satiriasi; Francesco De Carlo, Giorgio Montanini, Michela Giraud, Nicola Selenu. Come in ogni circuito ci sono microcorre­nti: i più politici (come Giardina e Montanini) e i meno. Tra gli addetti ai lavori, l’umorismo di Raimondo, ad esempio, è spesso definito “post-impegnato”, etichetta che lui, lontano dall’offendersi, rivendica. «Negli ultimi anni si sono persi i confini tra satira, informazio­ne e militanza, e ci si aspetta dai comici una serietà impropria. E poi siamo una democrazia: fare satira su chi ha il potere significa farla su noi stessi».

MA COM’È IL PUBBLICO ITALIANO di questi spettacoli? Una nicchia: metropolit­ana, esterofila, conosce le lingue (lo humour è spesso intraducib­ile). Netflix e Amazon Prime – che importano in Italia decine di show e serie tv sul mondo della stand-up comedy, come la recente The Marvelous Mrs. Maisel, vincitrice di due Golden Globe – non ci aiutano a capire la composizio­ne del loro pubblico (quasi fosse un segreto di Stato!). Più facile e divertente, andare a uno show e vedere chi c’è. Trovare una serata, in una grande città, non è difficile: solo questa settimana a Milano potrei scegliere fra quattro eventi. I locali più attivi sono Santeria, Ghe pensi mi, Sloan Square, Zog, Joy. Il teatro Franco Parenti dedica al genere una serata al mese. A Milano, gli scrittori Jacopo Cirillo e Giulio D’Antona hanno fondato la prima agenzia italiana di soli stand-up comedian, la Aguilar Entertainm­ent, che segue per ora sei artisti, fra cui Raimondo. A Roma, da dove il movimento è partito, ci sono l’Oppio Caffè, il Monk e la libreria Altroquand­o. A Bologna il Mikasa e il Macondo, a Palermo il cineristor­ante Cinematoca­sa, a Padova il Fishmarket. E così via. Prenoto un tavolino alla Santeria, locale milanese che alla stand-up comedy dedica molte serate, spesso strapiene. L’atmosfera è filologica­mente corretta: come in un club americano noi spettatori siamo seduti ai tavolini, i camerieri ci fanno ordinare prima dell’inizio, la luce si spegne e resta solo il faretto puntato sul microfono.

STASERA VANNO IN SCENA sei comici esordienti o quasi: hanno pochi minuti ciascuno per provare i loro monologhi di fronte al pubblico, e capire se le battute “arrivano”, cioè fanno ridere. Una serata come questa si chiama open mic, microfono aperto. Poi ci sono gli one man show, dove un solo comico tiene la scena per tutta la sera. «E per scrivere un’ora di monologo ci vuole anche un anno, la stand-up comedy prevede poca

Siamo un pubblico difficile: alle prese con la cena, distratti, se una battuta è moscia non ridiamo. I comici non si scoraggian­o: stand up,

in inglese, significa anche “resistere”

improvvisa­zione», spiega Cirillo. Sul palco si alternano Giovanni Fruscella, agente immobiliar­e che dedica il suo monologo alla figlia adolescent­e, in sala con un’amica; Marcello Filograsso, stagista in un serissimo istituto di ricerca, e Silvia Conti, genovese (che però rinuncia all’accento ligure, peccato!) e addetta stampa di una multinazio­nale. Il più applaudito è il diciassett­enne Davide Calgaro, liceale che da due anni approfitta «di tutte le serate open che trovo per farmi conoscere, e mettere a punto il mio primo show. Si intitolerà Questa casa non è un albergo, e la citazione è di mia madre: le battute di cui è protagonis­ta sono le più amate, ed è normale, perché un comico di stand-up fa sempre un personaggi­o, sì, ma di se stesso».

CHI È IL PUBBLICO, ci si chiedeva: attorno a me ci sono una cinquantin­a di venti-trentenni, si intravede il rapper Ghemon, rientrato da Sanremo, che ha, mi dice, «una vocazione inespressa per i monologhi». Quando Giovanni, l’agente immobiliar­e, chiede chi ha figli, in sala si alzano solo due mani. Siamo un pubblico difficile: alle prese con la cena (hamburger e insalate variopinte), un po’ distratti, ridiamo spesso, ma altrettant­o spesso lasciamo una battuta un po’ moscia morire nell’aria. I comici non si scoraggian­o. “Stand-up comedy”, mi spiega Cirillo, significa questo: non “comici in piedi” ma “comici che sanno resistere”. Nei localacci americani dei varietà Anni Quaranta, gli stand-up comedian erano quelli che resistevan­o in piedi a un pubblico di malavitosi, sboccato, feroce, mai compiacent­e. Che i loro epigoni riescano a riempire teatri e locali dove si esibiscono, facendo concorrenz­a a Netflix e alle risate in streaming, pare un’impresa altrettant­o miracolosa.

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