VIDEOCRAZIA
La serie The Alienist ha attori veri ma le manca l’anima di Magnum P.I.
UN PAIO DI BAFFONI. Una Ferrari. Una camicia hawaiana. E un sorriso. Trentotto anni dopo, la ricetta del successo di Magnum P.I. risulta di una semplicità disarmante: un serial tv dedicato a un detective privato che vive a Honolulu, ospite di un misterioso autore di gialli bestseller, nella dependence della sua grande villa sulla spiaggia. Magnum perennemente alle prese con il nemicoamico Higgins, guardiano inglese della magione, e dei suoi due dobermann Zeus e Apollo. L’americano pigro e disordinato e l’inglese maniaco della precisione, fatti per non capirsi e per diventare, ovviamente, amici veri. L’amico di Magnum, T.C., con il suo elicottero colorato. Un altro amico, Rick, proprietario di un bar. Tutto lì. Delle storie, a distanza di anni, si ricorda poco a parte qualche episodio cult e l’effetto pare voluto: Magnum, che è tornato – repliche sul digitale terrestre di Spike ogni pomeriggio alle 18 – ha allietato l’adolescenza a una generazione di giovani spettatori negli Anni 80 e si appresta a essere sottoposto a un doppio giudizio. Quello di noi nostalgici, che rivediamo Magnum rimasto in forma come allora – cristallizzato dietro lo schermo – mentre noi, davanti alla tv, in quasi quarant’anni siamo diventati uomini di mezza età. E, drammaticamente, il giudizio dei ragazzi. Possiamo fare solo una cosa: sperare che qualche giovane del 2018 prenda per il verso giusto l’ingenuità della premessa: stupidina, certo, ma Magnum ha una cosa che non esiste più, o quasi, nella tv della produzione di massa del 2018 (la parossistica peak tv nella quale Netflix e Amazon guidano la corsa a chi produce più “contenuti”). Cos’ha di speciale Magnum per parlare anche al pubblico di oggi? Un’anima. Non era figlio di ricerche di mercato, il budget era bassissimo (le scenografie sono sempre le stesse), le comparsate a sorpresa sono quelle dei due dobermann. Ma aveva un’anima. I personaggi sembravano davvero amici tra loro (ex commilitoni in Vietnam), il maggiordomo Higgins sembrava davvero inglese (l’attore John Hillerman, recentemente scomparso, era texano), la Ferrari sgommava davvero senza effetti speciali negli inseguimenti, Magnum aveva la pistola ma non sparava mai. E, soprattutto, le rarissime volte che qualcuno moriva era una tragedia vera, come nella vita, non un passo avanti nel plot prima del prossimo morto ammazzato a raffiche di mitraglia.
PENSAVO AL RITORNO di Magnum e della sua Ferrari guardando con preoccupazione la bruttezza infinita di The Alienist, la serie (da aprile su Netflix, ha già debuttato negli Usa) ispirata a un romanzo thriller, molto bello, di Caleb Carr e che riesce a utilizzare un budget considerevole per rovinare tutto il lavoro del romanziere. Usando nel modo più sbagliato possibile attori di nome come Dakota Fanning, Luke Evans e Daniel Brühl (Tom Selleck quando debuttò in Magnum era uno sconosciuto), sprecando i set che ricreano i bassifondi della New York ottocentesca. Perché a The Alienist, nato con tutti i vantaggi che Magnum non aveva, manca un’anima. Magnum ce l’ha, e ha il dono della leggerezza, senza prezzo in tempi di peak tv dove qualunque cosa – libro, pièce, fumetto – diventa serie tv da dare in pasto al pubblico globale. Magnum era americanissimo, e ci piaceva proprio quello – non si vergognava di essere provinciale. I prodotti nati oggi per un pubblico globale sono, in realtà, molto più provinciali del detective con i baffoni, al quale bastava alzare un sopracciglio per segnalare che la tv è un gioco. Ci sarebbe bisogno di un po’ di quello spirito, oggi.