Imparare a fare capriole non è un’impresa impossibile
COETANEE PERFETTE, a 11 anni mia figlia Giorgia (italiana) e sua cugina Julia (polacca) erano già separate da 440 ore (circa) di educazione fisica scolastica. Julia all’epoca ne aveva già accumulato, in 5 anni di elementari, 140 di nuoto e 320 di attività ludicomotoria sotto la guida di insegnati specializzati. Giorgia soltanto 20, frutto un effimero esperimento di ginnastica artistica affidato a una cooperativa esterna alla scuola. Il divario è aumentato tra le medie e il liceo, dove entrambe studiano oggi: per Julia quattro ore a settimana di ginnastica, per Giorgia due. In Polonia, alle elementari, imparare a nuotare, correre e giocare conta come leggere o scrivere. In Italia conta poco o nulla: l’educazione fisica alle primarie è obbligatoria solo sulla carta, affidata alla buona volontà delle maestre o a convenzioni a carico di papà e mamme. A 60 anni esatti dall’approvazione della “Legge Moro” sulla ginnastica a scuola, i maestri di educazione fisica di ruolo alle elementari restano un miraggio. Che otto ragazzi su dieci arrivino alle medie senza saper fare una capriola (pardon, una capovolta in avanti) non stupisce. Il difficile sarà imparare a farla più tardi: a 12 anni le qualità motorie di un preadolescente sono meno allenabili di quelle di un bimbo e la capriola-capovolta, il più affascinante gesto di libertà del corpo, quello che ti permette di vedere il mondo alla rovescia, può diventare oggetto di vertigini. Unica nazione senza ginnastica obbligatoria alle elementari, tra le poche con soltanto due ore a settimana alle medie e alle superiori (in Polonia, Austria e Slovacchia sono quattro, la Francia è da record col 14% del programma settimanale), è anche l’unica a spezzarle in due tranche di 50 minuti scarsi, magari tra italiano e matematica. L’Italia considera la ginnastica materia ricreativa e chi la insegna come una via di mezzo tra un bidello e un insegnante vero. Le scuole medie restano il luogo dove, da noi, c’è la maggior possibilità di insegnare ai ragazzi a muoversi in maniera coordinata, a correre, saltare, lanciare, imparare i giochi sportivi. Alle superiori interessi e attività crollano: fa sport solo chi è inquadrato nell’agonismo. E i licei sportivi? In Italia sono spesso licei scientifici dove il latino viene rimpiazzato da un’ora di ginnastica e una di anatomia. Funzionano? Sì, all’estero. Peter Sagan, fuoriclasse planetario del ciclismo, si è diplomato a Žilina, in uno dei 40 licei sportivi slovacchi: otto ore al giorno, per cinque anni, col duplice obbiettivo di allenarsi e portare a casa un diploma. Dieci nazioni europee seguono questo modello. Scuole per futuri campioni? No o non solo: scuole per allenatori, tecnici, meccanici, coach, dirigenti sportivi, osteopati, massaggiatori, arbitri. Ma anche – e soprattutto – per formatori che trasmetteranno il valore della fatica, quello della vittoria e della sconfitta e il senso della sportività. Perché l’Italia esca dalla palude dell’inattività fisica non c’è nulla da inventare, basta copiare i nostri vicini di casa.