Corriere della Sera - Sette

LA LONTANANZA - ALPI APUANE

Il marmo di Carrara, scelto anche da Michelange­lo, resta il preferito degli scultori di tutto il mondo (che spesso lo lavorano con laser e robot). Gran parte finisce per decorare case e alberghi di lusso in Cina e nei Paesi arabi. Non stiamo esagerando? P

- Di Francesca Bonazzoli

L’oro bianco delle nostre Alpi

C’È QUALCOSA, nella bellezza delle foto delle cave delle Alpi Apuane, che non torna: lo stesso disagio che confonde chi arriva nella zona di Massa e Carrara, da dove i siti per estrarre il marmo appaiono come un’enorme cicatrice. Un buco irrimediab­ile nel corpo di una divinità che regnava maestosa da miliardi di anni. Eppure succede spesso che negli atti empi assaporiam­o nostro malgrado anche una specie di trionfo abbinato a un sentimento indicibile di grandiosit­à. L’omicidio di un dio, ci ha insegnato Nietzsche, è impresa degna di un super uomo. Così, nelle foto scattate da Luca Locatelli dall’alto della montagna, lo sfregio appare un progetto colossale, con la sua estetica perversa. Il bianco imbuto rovesciato di Torano sembra la scenografi­a dal vero dell’Inferno di Dante; una città rovesciata, che si avvita a gradoni verso il basso, attraversa­ta da strade a zig zag dove camion, gru, scavatrici e uomini si muovono in un gran rumore avanti e indietro: minuscole formiche in un affascinan­te disegno apocalitti­co. Un paesaggio che lentamente si avvicina alla sua estinzione. La gente del posto, che per secoli si è seduta al banchetto delle migliaia di posti di lavoro, ora che è stata sostituita dalle macchine ad altissima automazion­e, comincia a dire basta. Si moltiplica­no le petizioni, gli appelli e le marce degli ambientali­sti «sui sentieri della distruzion­e», dove la polvere bianca

ha sostituito alberi e fiori persino nel geoparco Unesco delle Alpi Apuane. «Le cave vanno chiuse», dicono. Le montagne vanno salvate dal dilavament­o, dal fango, dal rumore continuo e assordante.

IN DIECI ANNI, dal 2001 al 2011, sono stati estratti oltre 48,5 milioni di tonnellate di blocchi. La maggior parte in scaglie (per quasi 43,5 milioni) che, polverizza­te, diventano carbonato di calcio per fare dentifrici, vernici, plastica, concimi, farmaci. Uno svilimento di quella stessa bellezza che prima diventava il David di Michelange­lo. Finora, però, nulla è riuscito a fermare il grande sterro. Ne parlava già Plinio il Vecchio, che scriveva: «La natura si era fatta i monti e un certo scheletro terrestre, condensand­o le parti interne, per potere a un tempo frenare l’impeto dei fiumi, e rompere i flutti, e contenere con la solidità della sua materia le parti più mobili ed irrequiete. Orbene, noi uomini questi monti li tagliamo e li portiamo via per nessun’altra ragione che per il lusso; questi stessi monti che un tempo era mirabile impresa il valicare». Nella Roma antica la diffusione delle pietre policrome provenient­i

da ogni angolo della terra (secondo Plinio persino dall’India e da Taprobane, l’odierna Ceylon) fu rapidissim­a. Raniero Gnoli è un antichista, orientalis­ta, indologo, illustre studioso di sanscrito, allievo di Giuseppe Tucci e Mario Praz e a sua volta docente a La Sapienza per quasi quarant’anni. Nei suoi percorsi intorno alla classicità, ha compilato anche Marmora romana, un libro di un’erudizione così filologica da sconfinare nel romanzo d’avventura, ristampato dalle Edizioni dell’Elefante nel 1988. In queste pagine Gnoli ha steso l’elenco di tutti i marmi impiegati nel mondo antico; scopriamo così che già nell’età di Augusto, la gran varietà di pietre colorate importate, primo fra tutti il raro porfido rosso imperiale e il bellissimo giallo antico di Numidia, deprezzaro­no il marmo bianco, il più diffuso a Roma e in Italia, che veniva chiamato Lunense dal nome dell’antica città di Luni, vicino a Carrara.

NEL MEDIOEVO l’uso intensivo del marmo decadde ma nel Rinascimen­to tornò in auge e Vasari ha reso nota a tutti la scena di Michelange­lo che si recava nelle cave per scegliere i pezzi da cui traeva per via di “levare” la figura che lo scultore considerav­a già contenuta dentro il blocco. L’immagine era suggestiva: quale artista avrebbe voluto essere da meno del sommo Michelange­lo? Il rito resiste ancora oggi che gli scultori non lavorano quasi più di persona, ma commission­ano la realizzazi­one dei lori progetti ai laboratori del posto. Officine industrial­i che, con computer e macchine laser, tagliano il marmo secondo il disegno (a volte nemmeno quello) che portano gli artisti. Sono fabbriche da cui escono prodotte in serie copie del David, statue di Cristo o di Padre Pio, ma anche le donne di marmo che l’artista Vanessa Beecroft rivende a migliaia di dollari come pezzi unici. Non fa differenza: per la macchina che li taglia sono tutti prodotti uguali, che se ne faccia un unico esemplare o centinaia. Tuttavia non è il marmo cavato per le opere d’arte (o i simulacri delle stesse) a devastare le Alpi Apuane. Solo una piccola percentual­e viene utilizzata per le sculture. Il peccato, in questo caso, è veniale e sta nella

miseria estetica di una produzione industrial­e, nel sacrificio inutile di una bellezza naturale che non si potrà mai più rigenerare. Raniero Gnoli l’ha spiegato bene: «Una cosa che affligge e umilia il marmo sono gli odierni metodi di lavoro e l’uso eccessivo della macchina. La perfezione delle lastre segate e pulite a macchina è una cosa morta. La vita della materia dipende dalle tracce che vi lascia, nel suo sforzo per dominarla, la mano e l’intelletto dell’uomo».

E INVECE LE CAVE vengono scelte in base alla loro capacità di produzione di metri cubi all’anno con blocchi che devono essere di grandezze e durezze segabili dalle macchine. «Il risultato di tali parametri», avverte Gnoli, «è una generale decadenza della qualità e della bellezza della pietra». Questo succede perché l’ostentazio­ne del lusso ha criteri diversi dalla bellezza. La fame di marmo di Carrara segue i flussi del denaro, dalla Roma imperiale alla Londra vittoriana alla New York del Novecento fino alle odierne Arabia Saudita, Abu Dhabi, Mumbai, Pechino. Enormi quantità compiono oggi il viaggio opposto

rispetto alla Roma antica e dall’Italia partono verso i confini dell’ex Impero per costruire moschee, palazzi, centri commercial­i, hotel in un’apoteosi del kitsch. Ormai non ci sono più limiti e le Apuane si sgretolano in migliaia di fontane, pavimenti di hotel, vasche da bagno, dentifrici, paccottigl­ia da soprammobi­li, vasi, dispersi nel mondo. LE VETTE lentamente spariscono. Il dente di Calocara, da sempre immagine della cartolina di Carrara, in vent’anni è diventato invisibile. Le cave via via abbandonat­e, come quelle di Morlungo, si anneriscon­o di fango. Il monte Bettogli è stato fatto a pezzi e ormai non si sa più come chiamarlo. Ci vorrebbe più equilibrio nell’arraffare l’oro bianco e almeno le vette andrebbero rispettate. Quanto andremo avanti a spianare questa maestosa morfologia aspra e incisa, che pur in zona appenninic­a prende il nome di Alpi? Avidamente, sembra, fino alla sparizione, fino a fare del nobile marmo triviale calcina.

«Ci vorrebbe più equilibrio nell’arraffare l’oro bianco. E almeno le vette andrebbero rispettate»

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