Corriere della Sera - Sette

«Non sopporto le ipocrisie dei vegani: anche gli avocado inquinano»

- di Vittorio Zincone foto di Massimo Sestini Chef Rubio

In camion con Chef Rubio, che attacca gli show televisivi tipo Masterchef («Non c’entrano nulla con la cucina»), lo slow food («Conosco piccoli produttori strozzati da quel tipo di distribuzi­one») e gli allevament­i di pesce scandinavi: «Nei nostri mari c’è l’ottimo sarago ma non interessa a nessuno. Il suo futuro? «Un film sui rom»

È DIVENTATO CELEBRE girovagand­o per le cucine più sperdute d’Italia con la trasmissio­ne Unti e bisunti: tra polipi essiccati, tielle ripiene e frattaglie fritte. È alfiere del fornello genuino, nonché gran cerimonier­e della scarpetta. Lo incontriam­o in provincia di Milano. Gabriele Rubini, noto ai più come Chef Rubio, 34 anni, è quanto di più lontano dalle ricette laccate dei talent show e dalla foga stellata dell’impiattame­nto fighetto. È di Frascati, grosso, tatuato e con una parlata romanesca che gli fa troncare le parole come fossero quarti di bue: «Magnà… pagà… guardà…». Le mani ferme sul volante. Un occhio puntato sugli specchiett­i retrovisor­i per controllar­e il rimorchio. I tatuaggi maori bene in vista. Il Doppio Binario si svolge su un enorme camion. Con noi c’è il proprietar­io, Vittorio Spinelli, detto lo Zingaro. Rubio ha girato con lui uno degli episodi della serie Camionisti in trattoria, che andrà in onda su DMax (dal 10 maggio, prodotto da Nonpanic). Ci diamo del tu. Quando gli chiedo se l’esperienza sui Tir abbia confermato l’adagio per cui nei ristoranti frequentat­i dai camionisti si mangia bene, prima annuisce, poi infila la quarta e comincia a demolire i tic della ristorazio­ne pluripremi­ata: «Per appagare i sensi non si devono spendere per forza trecento euro. Ne ho pagati quindici per un pasto di pesce in alcune trattorie che non erano belle fuori, ma avevano parecchia anima e si mangiava molto bene». Mangiare bene in Italia oggi. «Purtroppo oggi siamo tutti cotti tataki ( preparazio­ne giapponese del

pesce, ndr) e avvolti in una crosta di sesamo». Nel piatto vogliamo il croccante, l’acido, il sapido. «Tutti a scimmiotta­re i talent show. Tutti a impiattare cercando una disposizio­ne inusuale del cibo. Ma se uno vuole fare l’artista dovrebbe infilarsi nella bottega di un pittore e cominciare a maneggiare materiali plastici. Se invece vuoi fare il cuoco… concentrat­i sul cibo e famme magnà bbene. Altro che fettine verdi di avocado infilate ovunque». Non ami l’avocado? «Mi fanno ridere gli ultra-veg attentissi­mi all’ambiente che si distraggon­o sul fatto che gli avocado vengono quasi tutti dal Cile o da Israele. Quindi sono inquinanti. Vogliamo parlare dei salmoni?». Che ti hanno fatto quei poveri pescioni? «Sembra che siano gli unici sopravviss­uti nelle acque del pianeta. Nei nostri mari c’è il sarago che ha una carne elegante e saporita, ma non se lo fila nessuno. Mangiamo salmoni allevati in modo turpe in acque scandinave, arance turche… E poi ci lamentiamo se i piccoli imprendito­ri dell’agroalimen­tare chiudono e cambiano lavoro». Rubio fa scivolare il piede sul freno. Rallenta. Affronta con cautela una rotonda. Poi prosegue l’intemerata: critica gli accordi commercial­i europei e se la prende con la grande distribuzi­one alimentare «modello Eataly». Quando gli chiedo perché, visto che Farinetti segue i dettami slowfoodis­ti di Carlin Petrini, lo chef sbotta: «Conosco piccolissi­mi produttori di burrata che sono stati avvicinati, sfruttati e strozzati da quel tipo di distribuzi­one». Non si ferma. Passa a demolire i cooking show, tipo Masterchef: «È roba che non c’entra

nulla con la cucina. Che messaggio è quello per cui ti metti a fare una gara? E per vincere che cosa?». Obietto: chi vince pubblica un libro di ricette e si becca una cascata di gettoni d’oro. «E che ci fanno coi gettoni d’oro? Li usano per l’analista? Per affrontare i danni da fine dell’esposizion­e mediatica?». Rubio scaraventa nel tritacarne anche i giudici della nota trasmissio­ne tv: «Che senso ha parlare di cucina a chilometro zero e poi fare la pubblicità del gorgonzola dolce o delle patatine? Non ho grande rispetto per le ipocrisie e per chi presta il volto al mondo dell’industria alimentare». Gli faccio notare che lui è testimonia­l di una nota birra nazionale. Accoglie l’obiezione: «È un brand che racconta amicizia e passione, ha prezzi popolari. È una birra bevuta da operai e da manovali». Lo Zingaro, seduto accanto al posto di guida, annuisce. Rubio ogni tanto eccede nei complottis­mi. È un guevarista culinario, decisament­e più attento al popolo che alla popolarità e alle cosiddette pubbliche relazioni. Racconta: «A maggio, con lo Zingaro affittiamo un camper e andiamo al festival dei rom». Sui rom lo chef tatuato sta anche girando un corto (titolo: Elias) con la sua casa di produzione Tumaga. Anche su questo argomento, non è esattament­e allineato con quel che pensa la maggior parte degli italiani. Dice: «Se vivessi in un lager, se i miei figli venissero morsi tutti i giorni dai topi e rischiasse­ro di morire di setticemia perché accanto al mio campo non esiste il trasporto pubblico e gli ospedali sono irraggiung­ibili, anche io andrei a rubare in metropolit­ana». Mentre parliamo Massimo Sestini si arrampica sul paraurti davanti per mettere a fuoco uno scatto. Rubio indicando lo zoom hi-tech dice: «Quello costa, eh». Racconta la sua passione per la fotografia: «A breve pubblicher­ò un volume per Rizzoli con le immagini dei miei viaggi. Si chiamerà Mi sono mangiato il mondo ». Fai foto con lo smartphone durante i ritagli di tempo? «Scherzi? Scatto in analogico, con la pellicola». Antico. «E non uso photoshop. Se vedo un’immagine che mi piace cerco di riportarla per come l’ho vista. Se hai l’esigenza di ritoccare uno scatto al computer non ti fidi della potenza del tuo punto di vista». Cucina democratic­a, fotografie analogiche… «Ahah. Non uso gli emoticon e prendo appunti su un taccuino». Mentre lo dice infila la mano in uno zaino e tira fuori un quadernett­o scarabocch­iato. Chiedo: che cosa sono quegli appunti?

«È un progetto su alcuni lotti abitativi del quartiere Monteverde». Sono case occupate? «Anche. Voglio raccontare un panorama umano fatto da persone che sembrano scomparse dal dibattito pubblico. Trascorro con loro un po’ di tempo, mi faccio raccontare la Roma che non c’è più». Hai girato anche una serie di video-ricette con il linguaggio dei sordomuti. Da dove viene questo tipo di sensibilit­à? «Mi guardo intorno». Hai mai fatto politica? «Mai. Neanche a scuola. Parlare con tutti e cercare di risolvere i problemi di chi ha bisogno è più importante di prendere una tessera o di nasconders­i dietro a un voto dato ogni cinque anni. Preferisco fare che delegare». Che cosa hai votato alle ultime elezioni? «Non ho mai votato». Scherzi? «E mai voterò. Non mi piace la poca trasparenz­a e l’assenza di responsabi­lità di chi dice una cosa e poi ne fa un’altra». Ma almeno ti informi sulle evoluzioni politiche del Paese? «Leggo sette quotidiani al giorno». Rubio parcheggia il camion in un piazzale. Siamo arrivati davanti a casa dello Zingaro. Ci infiliamo in un hamburgeri­a. Io e Sestini ci distraiamo per qualche secondo e quando ci sediamo a tavola ordiniamo quel che ha preso lo chef, senza sapere di che cosa si tratti. Dopo qualche minuto arriva un panino alto venti centimetri con dentro bacon, pomodoro, insalata e quattro enormi hamburger. Un chilo di carne. Rubio: «Mi avevano detto che erano sottili. Ora ci tocca finirli». Lui ce la fa. Noi no. Lui pesa più di 110 chili ed è un ex rugbista. È arrivato fino alla Nazionale Under 21. Racconta: «Poi mi sono infortunat­o alle ginocchia. Ma non credo che sarei arrivato alla Nazionale maggiore. Per cinque anni ho alternato il lavoro in cucina con la carriera rugbistica. Alla fine ho deciso di dedicarmi solo ai fornelli». L’esordio in un ristorante? «Da sguattero in un locale di Frascati. Poi sono stato lavapiatti in un risto-pub dalle parti di Grottaferr­ata». Nel 2005, a 22 anni, ti sei trasferito in Nuova Zelanda. «Durante un’occupazion­e del liceo avevo visto il film Once were warriors. Volevo un tatuaggio maori in faccia. Inoltre la Nuova Zelanda è terra di rugbisti. Giocavo e lavoravo in cucina». È vero che non aspiri ad avere un tuo ristorante? «È vero. Sono un cuoco nomade». Il primo indicatore di un buon ristorante. «Il pane. Non parlo dei grissini con la curcuma, eh. Il pane pane. La freschezza. E poi il menù…». Che cosa ci deve essere scritto sul menù? «Poco. Se trovo tre righe per descrivere un piatto mi cascano i coglioni. Perché devi scrivere che la pasta è trafilata in bronzo e i datterini sono stati raccolti a mano alle pendici dell’Etna? È una pasta al pomodoro. E anche se gli dedichi un poema non puoi farmela pagare trenta euro. Il ricarico è comunque eccessivo. Conosco maestri con stelle Michelin che un piatto di pasta al pomodoro

«Il primo indicatore di un buon ristorante è il pane. Non parlo dei grissini con la curcuma, eh. Il pane pane. La freschezza. E poi il menù...»

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