Corriere della Sera - Sette

TURISMO ATOMICO

- di Matteo Cruccu

Chernobyl, la Pompei sovietica

La città ucraina, teatro del disastro nucleare del 26 aprile 1986, è diventata un’attrazione turistica: quest’anno sarà visitata da 65mila visitatori. È una landa desolata che racconta una catastrofe, le utopie dell’Unione Sovietica e i paradossi di oggi

LA PRIMAVERA DEL 1986, gli allora bimbi delle elementari italiane se la ricordano bene: gli ammoniment­i materni («Non scavare in giardino»); i diktat alimentari («Non mangiare le fragole e la lattuga»), e infine un timor panico per la pioggia che spingeva le maestre a vietare perfino la ricreazion­e all’aperto. Una nuvola avvelenata provenient­e da Est sembrava contaminar­e terreni, coltivazio­ni, perfino la produzione di latte. Per la generazion­e a cui erano stati risparmiat­i gli orrori di Hiroshima e Nagasaki si è trattata di un’educazione atomica in tempo di pace. Colpevole era la gigantesca fuga di veleni radioattiv­i creata dall’esplosione del reattore di una centrale nucleare lontanissi­ma: oltre la Cortina di Ferro fra Est e Ovest, molto prima della caduta del Muro di Berlino. A Chernobyl, Unione Sovietica.

Nell’immaginari­o di noi bambini di sette anni (come me) era un universo remoto denso di scenari apocalitti­ci di fumi e rovine: se ci avevano spaventato così tanto nei cortili delle nostre periferie, chissà cosa doveva essere successo laggiù, nel cuore del disastro.

CIÒ CHE IL BIMBO di allora non poteva immaginare è che un giorno, a Chernobyl, ci si sarebbe potuti andare in gita, in un luogo non più inaccessib­ile, in un Paese – l’Ucraina – nato dalla dissoluzio­ne dell’Unione Sovietica. Per scoprire lì che quel che rimane a 32 anni dall’esplosione è sì una landa desolata, ma non rassomigli­ante a un futuribile racconto di Asimov, quanto piuttosto a una post-moderna fiaba dei fratelli Grimm. Prypiat, la città satellite da 50.000 abitanti costruita a tre chilometri da Chernobyl, il paesino ben più piccolo dove sorgeva la centrale, se lo sono mangiato gli alberi, come durante il letargo della Bella Addormenta­ta nel Bosco. Dormono, infatti, i palazzi di dieci piani, dorme la casa del popolo, dormono gli alberghi e i ristoranti, dorme la piscina, dorme il supermerca­to, dorme

l’ormai iconica ruota panoramica, tutta arrugginit­a, dormono gli autoscontr­i. Perché Prypiat venne abbandonat­a, con colpevole ritardo, tre giorni dopo lo scoppio, con un esodo di massa organizzat­o in fretta e furia da Mosca. E rimase cristalliz­zata per sempre in un fermo immagine. Prima negletta e dimenticat­a, oggi trasformat­a in una sorta di Pompei sovietica, paradossal­e meta turistica, peraltro nel disinteres­se generale di Kiev, che quel passato vuole assolutame­nte dimenticar­e, travolta dalla guerra congelata eppure ancora in corso con gli ex amici russi.

NONOSTANTE TUTTO, sono ben 65.000 i visitatori previsti per il 2018, con un balzo del 50% rispetto solo al 2017. Ci si va attraverso l’infaticabi­le lavoro di piccole associazio­ni: per la cifra, non proprio modica, di 150 euro, si può provare l’ebbrezza di vedere come si viveva in Urss nel 1986, superando due checkpoint e oltrepassa­ndo la valanga di scartoffie burocratic­he che dimostrano come l’Ucraina non sia molto cambiata rispetto all’Unione Sovietica. Gli altri abitanti di questa immensa città-fantasma, oltre ai lupi e agli orsi che si aggirano indisturba­ti tra i

casermoni, sono le forze speciali dell’esercito ucraino, come si evince dai fori dei proiettili nelle vetrine di quel che era il bar modello della cittadina. Perché non sembra vero, ai cecchini e ai tiratori scelti, poter disporre di un gigantesco campo di esercitazi­one dove ricreare le perfette condizioni per la guerriglia urbana.

MA SE, OLTRE AI MILITARI, Prypiat affascina anche questa nuova ondata di turisti è perché la bella addormenta­ta non era un posto qualsiasi: nei sogni (e nei depliant) dell’ortodossia comunista veniva idolatrata come Atomgrad, la Città del Futuro fondata nel 1970, dove ogni sovietico avrebbe desiderato vivere, come recita ancora oggi la gigantesca e cadente scritta in cirillico sopra uno dei palazzi in sonno. «L’energia nucleare genera soldati per la pace». Per questo i supermerca­ti di Prypiat dovevano essere pieni: altro che le file chilometri­che da cartolina triste a Mosca o Leningrado! Vagando tra i carrelli abbandonat­i e gli scaffali rovesciati, ci si riesce facilmente a immaginare la felicità dei clienti di trent’anni prima per questo raro paradiso consumisti­co. Una felicità garantita dai vertici del Partito che non si preoccupar­ono di costruire Prypiat a soli tre chilometri dal reattore. Ed eccolo il reattore: oggi è sepolto in un sarcofago enorme e per la sua dismission­e sono impiegate ben 4.500 persone, diventate i nuovi residenti, pur se temporanei, del vicino e più piccolo abitato di Chernobyl. Perché una centrale nucleare vive anche quando è morta, a testimonia­nza dei costi sociali che comporta questa energia quando non funziona. Poi ci sono i costi umani. I morti, dopo l’esplosione al reattore numero quattro, furono una trentina: coloro che lavoravano a diretto contatto con l’impianto. Ma, secondo gli studi di diversi organismi indipenden­ti, i

decessi legati alla tragedia di Chernobyl sono almeno 800.000, a causa dei tumori e delle malattie scatenate dai veleni radioattiv­i: per il 70% in Bielorussi­a, colpita ben più dell’Ucraina. Fu il vento, andando verso nord, a decidere dove seminare la morte.

NON C’È INVECE RAGIONE di aver timore delle condizioni del presente. Le possibilit­à di tornare contaminat­i dalla gita in questa Pompei orientale sono pressoché nulle. Durante il girovagare in tutta l’area, grande 2.600 chilometri quadrati, il livello delle radiazioni percepito è inferiore a quello di un viaggio interconti­nentale in aereo, col contatore Geiger che suona molto di rado nel rilevare quantità più alte del normale. Il pericolo semmai è sottoterra dove i materiali velenosi si sono insinuati in profondità: per questo nella Chernobyl diventata foresta oggi è vietato scavare.

In mezzo alla boscaglia si apre l’altro sito in questo percorso della memoria: Chernobyl Due, così chiamata senza fantasia, era un luogo ignoto sulle cartine geografich­e se non all’intelligen­ce dell’Armata Rossa e al Kgb. Lì sorgevano strutture radar enormi, alte 150 metri, con cui l’Urss voleva captare i segreti del nemico americano ai tempi della Guerra Fredda. Un’opera costata otto miliardi di dollari e in pratica mai utilizzata: due giorni dopo l’esplosione venne abbandonat­a in tutta fretta e clandestin­amente. Qui le atmosfere alla Ridley Scott, il regista di Blade Runner, sono più vicine, con le carcasse dei computer nei lunghi corridoi bui e le gigantesch­e torri d’acciaio dimenticat­e, attorniate da cartelli sinistri che indicano il pericolo di radiazioni tutt’intorno.

LA VISITA È TERMINATA e, mentre ci si allontana, cresce la sensazione di aver attraversa­to un pezzo della nostra storia recente, non solo impregnata di catastrofe, ma anche di utopie mancate e sogni irrealizza­ti. Questo sembra ricordarti uno degli ultimi Lenin rimasti nell’Ucraina che oggi si affanna a cancellare il suo passato, mentre, dalla piazza desolata di Chernobyl, osserva corrucciat­o e perplesso il turista che se ne va.

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 ??  ?? MAUSOLEO RADIOATTIV­O Sopra, turisti al controllo per le radiazioni dopo la visita alla centrale nucleare. A sinistra, in alto, un murales a Prypiat; in basso, monumento davanti al sarcofago del reattore di Chernobyl
MAUSOLEO RADIOATTIV­O Sopra, turisti al controllo per le radiazioni dopo la visita alla centrale nucleare. A sinistra, in alto, un murales a Prypiat; in basso, monumento davanti al sarcofago del reattore di Chernobyl
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 ??  ?? NEL BOSCO A sinistra, turisti passeggian­o nel bosco di Prypiat vicino ai radar antimissil­i, oggi inutilizza­ti. In alto, ritratti dei leader del Partito Comunista sovietico tra le macerie del centro culturale locale
NEL BOSCO A sinistra, turisti passeggian­o nel bosco di Prypiat vicino ai radar antimissil­i, oggi inutilizza­ti. In alto, ritratti dei leader del Partito Comunista sovietico tra le macerie del centro culturale locale
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