PERCHÉ DICIAMO
LE PAROLACCE?
Le parolacce dilagano. Ai bambini non le vietiamo più, e i politici ne fanno ampio uso. Il turpiloquio segnala una visione rozza della lingua, blocca i ragionamenti e qualifica chi lo utilizza più di chi ne è bersaglio. Ma esiste un modo per usarlo bene. Machiavelli insegna
LLA MIA AMICA GIOVANNA non può vivere senza dire parolacce. Occorre sapere che Giovanna è persona istruita e professionista apprezzata. La madre, che parolacce non ne ha mai dette, continua a domandarsi come le sia potuta venire una figlia così. Lei si giustifica con la scusa che la parolaccia la rilassa, specialmente quando si trova al volante, e in particolare la mattina, mentre si reca al lavoro. Io sarei portato a pensare che la parolaccia le serva piuttosto da rito di rassicurazione che da calmante. Il turpiloquio dà – neppure un bambino lo ignora – un senso di potere; ti protegge, funzionando a un tempo, specie fra gli agguati del traffico cittadino, da formula di scongiuro, da esclamazione punitiva e da espressione di sdegno.
LE PAROLACCE AUTOMOBILISTICHE di Giovanna esplodono e ricadono unicamente all’interno dell’abitacolo. I suoi bersagli non solo non la sentono, ma neanche hanno in mente la sua esistenza, o comunque non se ne curano. Dovesse anche entrare nel loro campo visuale, questa insultatrice non sarebbe altro che un’apparizione fuggevole, per di più schermata dal doppio diaframma dei parabrezza. Il turpiloquio in questo caso vale da puro e semplice sfogo. Una funzione, certo, tutt’altro che trascurabile. Probabilmente va così per moltissimi altri. Chissà quanti le parolacce le urlano tra sé e sé, dovunque risulti loro più congeniale, insaponandosi sotto la doccia o facendo jogging nel parco, o magari al buio, prima di addormentarsi. Qualcuno prega Dio, qualcuno insulta un altrettanto insondabile prossimo. Un v. e sogni d’oro.
LA DIMENSIONE PIÙ COMUNE del turpiloquio, però, è sociale. La parolaccia, che è fatta per offendere, pretende un pubblico e, va da sé, qualcuno o qualcosa da colpire. Sta al posto di una sberla o di un calcio, o di uno sputo. Aristotele, a ragione, notava che tra l’aischrologhia (il modello greco di turpiloquium, termine del latino cristiano) e l’azione riprovevole il passo è breve. Lo si è visto anche troppo dimostrativa mente in questi giorni alla televisione. Sia Aristotele sia Platone, dunque, vietavano senz’altro la pratica dell’ aischro loghi a nel loro stato ideale.
ESSENDO SOSTITUTO VERBALE di un gesto corporeo, la parolaccia nasce dal culto delle funzioni più basse dell’organismo (la defecazione, anzitutto) e da una concezione puramente anatomica o suppostamente bestiale del sesso. A differenza, però, di un’aggressione fisica, la parolaccia ferisce ridicolizzando. È comica e lo è in un duplice senso: 1. perché plebea, carnevalesca, liberatoria, irriverente; 2. perché censoria, beffarda, deformante. La parolaccia evoca contemporaneamente i bassifondi e il tribunale. In sostanza, si propone di fare giustizia. È regolamento di conti. Esagerando in senso contrario, raddrizza la bilancia; toglie e mette dove ritiene che sia avvenuto un torto. È vendicativa, la parolaccia. E come strumento di vendetta primeggia nei versi di epigrammatisti e satirici antichi, da Catullo a Giovenale. Ha, certo, una sua gloriosa tradizione letteraria, che non si limita all’antichità. Parolacce se ne
trovano perfino nelle scritture private di signori delle lettere, che con la volgarità linguistica sembrerebbero non aver nulla che spartire, da Machiavelli a Leopardi a molti altri, non solo italiani.
MA, A PARTE LE FUNZIONI PRATICHE che abbiamo appena considerato, perché esiste il turpiloquio? Qual è la causa prima? È – non sorprendiamoci – la ricerca di una lingua migliore, di una lingua più efficiente. Il turpiloquio, in via di principio, è la cosa più vicina alla poesia: lingua che vuole realizzare di più; che vuole arrivare al punto, sorprendere, convincere come solitamente sa di non poter ottenere. Tutti prima o poi – poeti e no – sentiamo l’insufficienza della lingua che ci è data e desideriamo uscire dagli usi normali, utilitaristici, delle parole; tutti sogniamo una lingua potente e incontrastabile. Come la poesia, il turpiloquio nasce da un impulso a diventare magia. In quanto magia, non indica semplicemente qualcosa; è o pretende di essere choc e, dunque, di condizionare la realtà circostante, non limitandosi a comunicare un contenuto, ma modificando la mente e il cuore di chi ascolta.
LA PAROLACCIA, ALLA FINE, non è una vera e propria parola. È piuttosto verbalizzazione di uno stato affettivo: rabbia, disprezzo, meraviglia, partecipazione, impazienza. Ho già detto che sostituisce un attacco fisico. Sostituisce prima ancora un urlo viscerale. Sbagliato prendersela se qualcuno ci dà del figlio di … o ci manda a… La parolaccia non ha mai significato letterale. E non è neppure, sebbene possa sembrarlo, una metafora, un’espressione figurata che indichi un oggetto concreto. Non parla di noi, bensì di chi la pronuncia. Ci notifica, quanto meno, la sua smania di primato. Designa, in ogni caso, un certo tasso di emotività.
LE PAROLACCE OGGI DILAGANO. Non le si proibisce più neppure ai bambini. Il fenomeno è osservato dai linguisti e dai commentatori sociali. Dilagano perché dilaga la comunicazione spicciola. Non vengono senza le loro compagne ideali: le frasi fatte. Basta scorrere qualche scambio di battute su una pagina di Facebook e avremo una campionatura abbastanza rappresentativa della condizione verso cui tende la lingua pubblica. L’uso scriteriato di espressioni volgari indica un problema di ordine sociale: è in crisi la specificità dei messaggi. Di specifico restano ormai solo i gerghi tecnici, i vernacoli accademici, che hanno circolazione limitata e identificano comunità di specialisti. Sempre meno si parla davanti alla città intera, davanti al mondo, in vista di una verità. Si parla e basta. La proprietà lessicale e la convenienza stilistica decadono automaticamente, perché non si sa alla fine perché e per chi si parli. La cosa diventa preoccupante quando la si osserva nella prassi dei politici. Anche la politica, infatti, si è ridotta a comunicazione spicciola; anche la politica utilizza le parolacce. Inutile ricordare qui primati e campioni, che chiunque può richiamare alla sua memoria da sé. Ma – controbatterà qualcuno – non si hanno i precedenti di Machiavelli e Leopardi? Non cadiamo in confusioni banali. Le parolacce che hanno buttato nei loro scritti questi grandissimi appartengono alla conversazione privata; compaiono nella corrispondenza con gli amici o i familiari. Cercate nel Principe o nelle Operette morali: non salterà fuori (appunto) ... un cazzo. Dove c’è pensiero non può entrare parolaccia. Occorre poi un’ulteriore precisazione. Quando le parolacce le dicono due maestri della lingua, la volgarità acquista ben altra valenza, perché il sistema alto in cui entrano – se decidiamo di giudicarle alla stregua delle loro grandi opere – le connota “ironicamente”. Quando Machiavelli scrive “cazzo” all’amico Vettori (o, latineggiando, anche “cazzus”), sa esattamente che cosa sta dicendo. Ha scelto di dirlo; non si è ridotto a dirlo. La parolaccia si confà perfettamente al registro generale, che è divertito e disimpegnato.
LE PAROLACCE BISOGNA SAPERLE USARE, come qualunque altro elemento della frase, compresi i silenzi. Non perché le hanno usate Machiavelli o Leopardi, dobbiamo credere di poterle usare altrettanto opportunamente noi. Per le parolacce vale la regola che stabilisce l’importanza di qualunque vocabolo: il contesto, cioè la frase. Nessun vocabolo è bello o brutto di per sé. Sarà solo la sintassi a deciderne la riuscita, il sistema di rapporti che ogni vocabolo riesce a stabilire con gli altri. Un vocabolo è bello quando rende belli tutti gli altri, e l’insieme si dimostra armonioso e logico. Quando non si adatta al contesto, la parolaccia denuncia incapacità linguistica e basta. Non solo
dimostra di essere l’ultima ratio di un parlante mediocre, ma presenta anche lo svantaggio di togliere credito a tutti i vocaboli che le stanno intorno. Anche questi appariranno frutto dell’estemporaneità; sembreranno buttati lì dal caso e dall’inconsapevolezza.
RICORRERE ALLA PAROLACCIA, alla fine, riflette una visione rozzamente economica della lingua: che il senso debba concentrarsi nel singolo elemento, in quel certo vocabolo. Come si illudono i collezionisti di rarità verbali (arcaismi o neologismi che siano), così si illudono i frequentatori delle parolacce. La realtà è un’altra. Il senso non sta tutto mai in una sola parte. Va ricercato e raccolto e messo nell’ordine che più gli conferisca la virtù di rivelarsi. Il senso persegue la sintassi, il pensiero, il ragionamento, viaggiando da un elemento all’altro, avanti e indietro; e distribuendosi in ogni parte, riempiendo anche gli interstizi. E questo i nostri signori politici dovrebbero impararlo una buona volta. Vogliono farsi capire? Le parolacce non servono; anzi, causano solo danno, perché bloccano la costruzione del ragionamento. Nella frase finiscono per compiere quello che compie il buco del lavandino. Se essere ascoltati e capiti è l’obiettivo, occorrono parole semplici. Troppo semplice parlare con semplicità? Troppo scontato? Assai meno di un v. o di un c. La scontatezza non è nella semplicità, ma nell’incapacità di usare il semplice in modo interessante. La politica deve essere politica, non sfogo personalistico, non maledizione, non blaterazione. Deve stimolare l’ascolto, deve meritarselo. E non deve ingannare. C’è, infatti, chi dalla parolaccia si lascia abbindolare: perché la riconosce come sua propria e allora crede che finalmente c’è qualcuno che si rivolge a lui, senza tanti giri di parole. Errore. Il politico non deve rivolgersi a me o a te, deve parlare a tutti. Deve creare frasi, cioè meditazione e proposte di sviluppo. Io non devo aspettarmi di riconoscere qualcosa di anche troppo familiare, ma devo pretendere che mi si offra una visione nuova e rinnovante, che aiuti la mia città, il mio Stato, a crescere e a migliorarsi, per la felicità di tutti. Io voglio sentire una frase bella, sì, bella, perché vorrà dire che è giusta, ponderata, sincera, pensante. Io voglio pensare insieme a coloro che ci parlano e ci rappresentano. Io, per quanto affetto nutra per la mia amica Giovanna, sono stanco di politici che si comportano come lei quando guida: chiusi nell’eco delle loro volgarità.