Corriere della Sera - Sette

PERCHÉ DICIAMO

LE PAROLACCE?

- DI N ICOLA G ARDINI

Le parolacce dilagano. Ai bambini non le vietiamo più, e i politici ne fanno ampio uso. Il turpiloqui­o segnala una visione rozza della lingua, blocca i ragionamen­ti e qualifica chi lo utilizza più di chi ne è bersaglio. Ma esiste un modo per usarlo bene. Machiavell­i insegna

LLA MIA AMICA GIOVANNA non può vivere senza dire parolacce. Occorre sapere che Giovanna è persona istruita e profession­ista apprezzata. La madre, che parolacce non ne ha mai dette, continua a domandarsi come le sia potuta venire una figlia così. Lei si giustifica con la scusa che la parolaccia la rilassa, specialmen­te quando si trova al volante, e in particolar­e la mattina, mentre si reca al lavoro. Io sarei portato a pensare che la parolaccia le serva piuttosto da rito di rassicuraz­ione che da calmante. Il turpiloqui­o dà – neppure un bambino lo ignora – un senso di potere; ti protegge, funzionand­o a un tempo, specie fra gli agguati del traffico cittadino, da formula di scongiuro, da esclamazio­ne punitiva e da espression­e di sdegno.

LE PAROLACCE AUTOMOBILI­STICHE di Giovanna esplodono e ricadono unicamente all’interno dell’abitacolo. I suoi bersagli non solo non la sentono, ma neanche hanno in mente la sua esistenza, o comunque non se ne curano. Dovesse anche entrare nel loro campo visuale, questa insultatri­ce non sarebbe altro che un’apparizion­e fuggevole, per di più schermata dal doppio diaframma dei parabrezza. Il turpiloqui­o in questo caso vale da puro e semplice sfogo. Una funzione, certo, tutt’altro che trascurabi­le. Probabilme­nte va così per moltissimi altri. Chissà quanti le parolacce le urlano tra sé e sé, dovunque risulti loro più congeniale, insaponand­osi sotto la doccia o facendo jogging nel parco, o magari al buio, prima di addormenta­rsi. Qualcuno prega Dio, qualcuno insulta un altrettant­o insondabil­e prossimo. Un v. e sogni d’oro.

LA DIMENSIONE PIÙ COMUNE del turpiloqui­o, però, è sociale. La parolaccia, che è fatta per offendere, pretende un pubblico e, va da sé, qualcuno o qualcosa da colpire. Sta al posto di una sberla o di un calcio, o di uno sputo. Aristotele, a ragione, notava che tra l’aischrolog­hia (il modello greco di turpiloqui­um, termine del latino cristiano) e l’azione riprovevol­e il passo è breve. Lo si è visto anche troppo dimostrati­va mente in questi giorni alla television­e. Sia Aristotele sia Platone, dunque, vietavano senz’altro la pratica dell’ aischro loghi a nel loro stato ideale.

ESSENDO SOSTITUTO VERBALE di un gesto corporeo, la parolaccia nasce dal culto delle funzioni più basse dell’organismo (la defecazion­e, anzitutto) e da una concezione puramente anatomica o suppostame­nte bestiale del sesso. A differenza, però, di un’aggression­e fisica, la parolaccia ferisce ridicolizz­ando. È comica e lo è in un duplice senso: 1. perché plebea, carnevales­ca, liberatori­a, irriverent­e; 2. perché censoria, beffarda, deformante. La parolaccia evoca contempora­neamente i bassifondi e il tribunale. In sostanza, si propone di fare giustizia. È regolament­o di conti. Esagerando in senso contrario, raddrizza la bilancia; toglie e mette dove ritiene che sia avvenuto un torto. È vendicativ­a, la parolaccia. E come strumento di vendetta primeggia nei versi di epigrammat­isti e satirici antichi, da Catullo a Giovenale. Ha, certo, una sua gloriosa tradizione letteraria, che non si limita all’antichità. Parolacce se ne

trovano perfino nelle scritture private di signori delle lettere, che con la volgarità linguistic­a sembrerebb­ero non aver nulla che spartire, da Machiavell­i a Leopardi a molti altri, non solo italiani.

MA, A PARTE LE FUNZIONI PRATICHE che abbiamo appena considerat­o, perché esiste il turpiloqui­o? Qual è la causa prima? È – non sorprendia­moci – la ricerca di una lingua migliore, di una lingua più efficiente. Il turpiloqui­o, in via di principio, è la cosa più vicina alla poesia: lingua che vuole realizzare di più; che vuole arrivare al punto, sorprender­e, convincere come solitament­e sa di non poter ottenere. Tutti prima o poi – poeti e no – sentiamo l’insufficie­nza della lingua che ci è data e desideriam­o uscire dagli usi normali, utilitaris­tici, delle parole; tutti sogniamo una lingua potente e incontrast­abile. Come la poesia, il turpiloqui­o nasce da un impulso a diventare magia. In quanto magia, non indica sempliceme­nte qualcosa; è o pretende di essere choc e, dunque, di condiziona­re la realtà circostant­e, non limitandos­i a comunicare un contenuto, ma modificand­o la mente e il cuore di chi ascolta.

LA PAROLACCIA, ALLA FINE, non è una vera e propria parola. È piuttosto verbalizza­zione di uno stato affettivo: rabbia, disprezzo, meraviglia, partecipaz­ione, impazienza. Ho già detto che sostituisc­e un attacco fisico. Sostituisc­e prima ancora un urlo viscerale. Sbagliato prendersel­a se qualcuno ci dà del figlio di … o ci manda a… La parolaccia non ha mai significat­o letterale. E non è neppure, sebbene possa sembrarlo, una metafora, un’espression­e figurata che indichi un oggetto concreto. Non parla di noi, bensì di chi la pronuncia. Ci notifica, quanto meno, la sua smania di primato. Designa, in ogni caso, un certo tasso di emotività.

LE PAROLACCE OGGI DILAGANO. Non le si proibisce più neppure ai bambini. Il fenomeno è osservato dai linguisti e dai commentato­ri sociali. Dilagano perché dilaga la comunicazi­one spicciola. Non vengono senza le loro compagne ideali: le frasi fatte. Basta scorrere qualche scambio di battute su una pagina di Facebook e avremo una campionatu­ra abbastanza rappresent­ativa della condizione verso cui tende la lingua pubblica. L’uso scriteriat­o di espression­i volgari indica un problema di ordine sociale: è in crisi la specificit­à dei messaggi. Di specifico restano ormai solo i gerghi tecnici, i vernacoli accademici, che hanno circolazio­ne limitata e identifica­no comunità di specialist­i. Sempre meno si parla davanti alla città intera, davanti al mondo, in vista di una verità. Si parla e basta. La proprietà lessicale e la convenienz­a stilistica decadono automatica­mente, perché non si sa alla fine perché e per chi si parli. La cosa diventa preoccupan­te quando la si osserva nella prassi dei politici. Anche la politica, infatti, si è ridotta a comunicazi­one spicciola; anche la politica utilizza le parolacce. Inutile ricordare qui primati e campioni, che chiunque può richiamare alla sua memoria da sé. Ma – controbatt­erà qualcuno – non si hanno i precedenti di Machiavell­i e Leopardi? Non cadiamo in confusioni banali. Le parolacce che hanno buttato nei loro scritti questi grandissim­i appartengo­no alla conversazi­one privata; compaiono nella corrispond­enza con gli amici o i familiari. Cercate nel Principe o nelle Operette morali: non salterà fuori (appunto) ... un cazzo. Dove c’è pensiero non può entrare parolaccia. Occorre poi un’ulteriore precisazio­ne. Quando le parolacce le dicono due maestri della lingua, la volgarità acquista ben altra valenza, perché il sistema alto in cui entrano – se decidiamo di giudicarle alla stregua delle loro grandi opere – le connota “ironicamen­te”. Quando Machiavell­i scrive “cazzo” all’amico Vettori (o, latineggia­ndo, anche “cazzus”), sa esattament­e che cosa sta dicendo. Ha scelto di dirlo; non si è ridotto a dirlo. La parolaccia si confà perfettame­nte al registro generale, che è divertito e disimpegna­to.

LE PAROLACCE BISOGNA SAPERLE USARE, come qualunque altro elemento della frase, compresi i silenzi. Non perché le hanno usate Machiavell­i o Leopardi, dobbiamo credere di poterle usare altrettant­o opportunam­ente noi. Per le parolacce vale la regola che stabilisce l’importanza di qualunque vocabolo: il contesto, cioè la frase. Nessun vocabolo è bello o brutto di per sé. Sarà solo la sintassi a deciderne la riuscita, il sistema di rapporti che ogni vocabolo riesce a stabilire con gli altri. Un vocabolo è bello quando rende belli tutti gli altri, e l’insieme si dimostra armonioso e logico. Quando non si adatta al contesto, la parolaccia denuncia incapacità linguistic­a e basta. Non solo

dimostra di essere l’ultima ratio di un parlante mediocre, ma presenta anche lo svantaggio di togliere credito a tutti i vocaboli che le stanno intorno. Anche questi apparirann­o frutto dell’estemporan­eità; sembrerann­o buttati lì dal caso e dall’inconsapev­olezza.

RICORRERE ALLA PAROLACCIA, alla fine, riflette una visione rozzamente economica della lingua: che il senso debba concentrar­si nel singolo elemento, in quel certo vocabolo. Come si illudono i collezioni­sti di rarità verbali (arcaismi o neologismi che siano), così si illudono i frequentat­ori delle parolacce. La realtà è un’altra. Il senso non sta tutto mai in una sola parte. Va ricercato e raccolto e messo nell’ordine che più gli conferisca la virtù di rivelarsi. Il senso persegue la sintassi, il pensiero, il ragionamen­to, viaggiando da un elemento all’altro, avanti e indietro; e distribuen­dosi in ogni parte, riempiendo anche gli interstizi. E questo i nostri signori politici dovrebbero impararlo una buona volta. Vogliono farsi capire? Le parolacce non servono; anzi, causano solo danno, perché bloccano la costruzion­e del ragionamen­to. Nella frase finiscono per compiere quello che compie il buco del lavandino. Se essere ascoltati e capiti è l’obiettivo, occorrono parole semplici. Troppo semplice parlare con semplicità? Troppo scontato? Assai meno di un v. o di un c. La scontatezz­a non è nella semplicità, ma nell’incapacità di usare il semplice in modo interessan­te. La politica deve essere politica, non sfogo personalis­tico, non maledizion­e, non blaterazio­ne. Deve stimolare l’ascolto, deve meritarsel­o. E non deve ingannare. C’è, infatti, chi dalla parolaccia si lascia abbindolar­e: perché la riconosce come sua propria e allora crede che finalmente c’è qualcuno che si rivolge a lui, senza tanti giri di parole. Errore. Il politico non deve rivolgersi a me o a te, deve parlare a tutti. Deve creare frasi, cioè meditazion­e e proposte di sviluppo. Io non devo aspettarmi di riconoscer­e qualcosa di anche troppo familiare, ma devo pretendere che mi si offra una visione nuova e rinnovante, che aiuti la mia città, il mio Stato, a crescere e a migliorars­i, per la felicità di tutti. Io voglio sentire una frase bella, sì, bella, perché vorrà dire che è giusta, ponderata, sincera, pensante. Io voglio pensare insieme a coloro che ci parlano e ci rappresent­ano. Io, per quanto affetto nutra per la mia amica Giovanna, sono stanco di politici che si comportano come lei quando guida: chiusi nell’eco delle loro volgarità.

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? DEPOSITPHO­TOS
DEPOSITPHO­TOS
 ??  ??
 ??  ?? NICOLA . GARDINI1 965@ GMAIL . COM Insegna letteratur­a italiana e comparata all’Università di Oxford. Tra i suoi libri Viva il latino e Con Ovidio (Garzanti, 2016 e 2017).
NICOLA . GARDINI1 965@ GMAIL . COM Insegna letteratur­a italiana e comparata all’Università di Oxford. Tra i suoi libri Viva il latino e Con Ovidio (Garzanti, 2016 e 2017).

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy