La ricetta spagnola: fondi, cultura e paella
PRIMA GRANADA, seconda Madrid, terza Valencia. Già: a dispetto della fama procuratele da L’appartamento spagnolo, non è Barcellona la meta più richiesta dagli studenti del programma Erasmus. L’Andalusia trionfa (almeno in questo) sulla Catalogna. Dal 2001 la patria di Cervantes occupa comunque ininterrottamente il primo posto nella lista delle preferenze degli studenti europei (e italiani in particolare) al momento di indicare sul bando la destinazione per «L’anno che ti cambia la vita». Delle 20 università più richieste nel vecchio continente, quasi metà sono in terra iberica, includendo Siviglia, Cadice, Salamanca, Alicante, Bilbao, San Sebastián, León; e, se è vero che la Spagna investe una montagna di soldi (202 milioni e mezzo di euro nel 2018) è anche vero che Madre Natura l’ha favorita rispetto a buona parte delle altre 32 nazioni europee partecipanti. Se si chiede a un giovane italiano per quali motivi abbia selezionato la Spagna come prima opzione per il suo anno di studi all’estero, probabilmente partirà dagli stimoli culturali, dal fascino del suo passato storico, dall’ambiente internazionale, dal costo della vita, più vantaggioso che altrove, dal clima. Forse ammetterà anche
di contare sulla vicinanza delle due lingue per integrarsi. Ma una siringa di siero della verità prevedibilmente (e comprensibilmente) basterebbe a fargli introdurre in cima alla classifica qualche valore aggiunto: il mare, la paella, il Real Madrid, la vita notturna, la facilità nell’intrecciare amicizie e flirt tra copas e tapas, oltre alla flotta di aerei low cost da e per l’Italia. Tutti elementi meno abbondanti attorno a un austero college di Leicester (Inghilterra) o alla pur quotata università di Würzburg (Germania). Gli spagnoli sono ovviamente lusingati dalla preferenza accordata loro da 46mila giovani europei per anno accademico (rispetto ai 35mila della Germania, ai 31mila dell’Inghilterra, ai 30mila della Francia e ai 24mila che sono venuti in Italia). Un paio di mesi fa, il ministro dell’Educazione, Íñigo Méndez de Vigo, ha sollecitato l’Unione Europea a decuplicare le risorse destinate a Erasmus+ (14,7 miliardi di euro dal 2014 al 2020), «affinché ogni cittadino europeo al di sotto dei 25 anni possa trascorrere almeno sei mesi all’estero». Nello spirito dell’ideologa del più grande valzer europeo di studenti: l’italiana Sofia Corradi, “Mamma Erasmus”. E nonna putativa del milione di bambini dei quali è stato stimato il concepimento negli ultimi trent’anni, grazie al “traffico” continentale di 4,4 milioni di ragazzi. Dal 1987 una nuova generazione di europei è nata e si è moltiplicata, come osservava Umberto Eco, grazie all’Erasmus: «Io la chiamo rivoluzione sessuale, un giovane catalano incontra una ragazza fiamminga, si innamorano, si sposano, diventano europei come i loro figli». La Spagna ha fornito un contributo decisivo, favorendo il movimento di 625mila studenti delle scuole superiori, 73mila allievi delle professionali, oltre 114mila docenti e volontari. Il difficile arriva il giorno del rientro: il 39% degli Erasmiani vorrebbe fermarsi e trovare un lavoro in Spagna, secondo un’inchiesta di ESN Spain. Ma soltanto il 6% ci riesce.