IL MIO AVVOCATO BATTUTISTA GESUITICO
Gianni Agnelli amava spiazzare tutti con il suo humour. Cinico con un giornalista sulla pista di Montecarlo, malizioso quando tese un tranello a Boniperti per fargli prendere Francescoli alla Juventus. E un giorno a me, tifoso granata, servì un bell’assis
OGNI VOLTA CHE per ragioni calcistiche veniva nella mia Torino, il radiocronista Sandro Ciotti mi consegnava una barzelletta su Gianni Agnelli recepita o elaborata da lui, romano e figlioccio di battesimo di Trilussa. Una per tante: l’operaio Fiat magnifica al collega di tornio l’auto personale dell’Avvocato (che avvocato vero non era, ma lo era con la maiuscola molto sua) una fantastica coupé lunga 40 metri, con stanza da letto, cucina, sala da pranzo, bagno, studio, pinacoteca, sauna, palestra…. «E se piove?». «Se piove l’Avvocato schiaccia un bottone e…». «Capito, un maxitetto scatta e sigilla tutta l’auto». «No, l’Avvocato schiaccia un bottone e smette di piovere». Ho conosciuto benino Gianni Agnelli cioè l’Avvocato, ne ho scritto pochissimo. Altri grazie a dieci minuti di colloquio hanno scritto spessi libri su di lui. Ero presente, distanza mezzo metro, da quello che per me è un Eve- rest ironico del suo personaggio. Gran Premio di Formula 1 a Montecarlo, il sabato senza prove, lui che sbarca dal suo yacht e si concede, provvido, al cazzeggio giornalistico nel paddock Ferrari, così che ci scappa l’intervista. Il dialogo si fa amichevole anzi famigliare, e un giornalista emiliano sfrutta la confidenza: «Avvocato, ho tante azioni Fiat, sono i miei risparmi e in Borsa continuano ad andare giù. Sono preoccupato, cosa devo fare?». E lui: «Pensi a me che ne ho di più». Adorarlo o sgozzarlo, nessun’altra scelta possibile. Ne ho anche per me. Sestriere, inverno 1997, vigilia dei Mondiali di sci alpino, sto parlando con Alberto Tomba e Mario Pescante presidente del Coni, mi telefona da Torino la sua segretaria: «L’Avvocato le chiede se, quando ha un’oretta libera, può passare da lui». Non è la prima volta che ricevo una telefonata così. Devo tornare comunque a Torino, saluto Tomba e Pescante all’insegna dell’ubi maior », vado da lui, mi ringrazia per la solerzia. Subito la domanda: «Lei ricorda bene Gabetto?». Era il centravanti del Grande Torino, la Juventus l’aveva scaricato, errore mostruoso. E lui: «Non assomiglia al nostro…?». E mi fa il nome di un giovane calciatore bianconero che più diverso da Gabetto non si poteva. «Avvocato, per cominciare ci sono anni luce fra i capelli di Gabetto compressi da chili di brillantina e la chioma al vento del suo giocatore capellone». «Mi sono confuso, mi spiace avere disturbato lei». «Avvocato, ci sono milioni di italiani, anche e specialmente giornalisti, che sognano di essere disturbati da lei». Glielo avevo detto altre volte, specialmente quando mi telefonava a casa il mattino presto, scusandosi quando gli segnalavo che dovevo chiudere, per portare mio figlio a scuola.
IL TRAMITE INIZIALE fra noi due è stato Boniperti, cocco dell’Avvocato (Umberto Agnelli, il fratello, coccolava Sivori). Giampiero è mio amico fraterno, siamo invecchiati insieme (lui fila per i 90, mi stacca eccome), ha chiamato Giampaolo suo figlio, mi sa granata praticante e pazienza. L’Avvocato si divertiva a farmi battute su Boniperti avaro, riferivo a Giampiero che si controdivertiva. Gianni Agnelli voleva per la sua Juve Francescoli, un uruguaiano forte assai, che allora giocava a Parigi, Boniperti ormai presidente bianconero era contrario. Un giorno Agnelli gli telefonò: «C’è Francescoli qui da me, vieni» (le ville collinari dei
due erano vicine). Boniperti era arrabbiato, si sentiva scavalcato, l’Avvocato gli presentò una mulatta stratosferica che si chiamava (forse) Francescoli. Il calciatore venne poi in Italia, per deludere nel Cagliari e nel Torino.
NEL 1979 ERO APPRODATO a La Stampa e mi avevano subito commissionato l’intervista impossibile con lui, che sul giornale suo sabaudescamente o gesuiticamente non voleva apparire. Mi regalò un’intervista così lunga e forte che venne persino tagliata. Glielo rivelai 27 anni dopo, durante un party della Torino superbene per celebrare l’assegnazione dei Giochi invernali 2006, decisa dal suo intervento estremo. Ci isolammo a parlare di pallone e fu contento quando gli dissi che da tifoso granata ricordavo che lui aveva privilegiato lo stadio nostro, il tempio di via Filadelfia, per un match a Torino di Ray “Sugar” Robinson, il pugile ballerino ingaggiato con i suoi soldi. Voleva bene anche al Toro, ricordava quasi con venerazione i morti di Superga. Un giorno mi convocò perché gli raccontassi la mia maratona di New York, corsa per scommessa e finita da me, fachiro ultrasessantenne non allenato, e fotografato su Famiglia Cristiana. Mi chiese se non avevo patito il freddo, ero tutto vestito di granata, gli dissi: «È un colore che tiene caldo». E lui: «Che bella palla le ho servito». Potrei scriverne a lungo, e pazienza se rischio anche il futile. Non mi riuscì con lui la provocazione: «Avvocato, provi a presentarsi allo stadio con una scarpa rossa e una verde, la domenica dopo tanti solerti tifosi bianconeri la imiteranno». Penso però che questo mio Gianni Agnelli serva un pochino a equilibrare quello beatificato da taluni, demonizzato da altri, adesso musealizzato in una serie televisiva, il massimo ed anche il minimo che c’è. P.S: per gli adepti della religione juventina, il loro calciatore che l’Avvocato osò paragonarmi a Gabetto si chiamava Michele Padovano: dice qualcosa a qualcuno?