Corriere della Sera - Sette

DIGIUNI SPIRITUALI

A metà maggio inizia il Ramadan, il mese sacro della religione islamica in cui, dall’alba al tramonto, non si assumono né cibo né acqua. Queste privazioni sono una pratica comune a molte religioni. Ma anche un metodo di protesta

- R T DI OSSELLA E R C AT I N

Nel cattolices­imo questa osservanza, prevista due giorni all’anno (Mercoledì delle Ceneri e Venerdì Santo) è finita nel dimenticat­oio. Ma è diventata una pratica personale, come forma di penitenza per espiare un particolar­e peccato

C«COM’È POSSIBILE rimanere senza cibo né acqua per 25 ore?». Quando mi capita di spiegare in cosa consista Yom Kippur, Giorno dell’Espiazione, il più solenne della tradizione ebraica, ciò che colpisce l’immaginari­o dell’interlocut­ore è l’idea di un tempo tanto prolungato in cui non si mangia e non si beve. La ricorrenza segna il momento in cui ci si dedica alla preghiera e al pentimento, mentre Dio decide cosa accadrà nell’anno a venire, sigillando il destino di ciascuno nel Libro della Vita: il digiuno si inserisce in questo contesto. Crescendo con tali concetti, non pare strano, né impossibil­e. Ogni anno ripenso a tutto questo quando si affaccia il periodo del Ramadan, che nel 2018 inizia il 15 maggio. Nel mese sacro della religione islamica, che ricorda la Rivelazion­e del Corano a Maometto, si digiuna ogni giorno dall’alba al tramonto. «In molti trovano l’idea del Ramadan fuori dal mondo, in realtà il corpo si abitua a un ritmo diverso, e quando finisce rimane un po’ di tristezza. Io lo paragono a una gravidanza: durante il Ramadan la vita interiore e spirituale rifiorisce», spiega Chiara Ilham Allah Ferrero, segretario generale della Coreis (Comunità religiosa islamica italiana). «Non è un periodo di mortificaz­ione. È molto sentito anche dai musulmani non praticanti, e la sera, quando ci si ritrova in moschea, la dimensione non è solo quella della pratica religiosa, ma della conviviali­tà». L’astenersi da cibo e bevande, pur assumendo diverse forme, è un punto di incontro fra moltissime tradizioni, inclusa quella cristiana. Lo stesso pontefice Jorge Bergoglio poche settimane fa ha proclamato una giornata di digiuno e di preghiera per la pace e la riconcilia­zione, in particolar­e per Sudan e Congo. «Sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, dal rapporto con il cibo passa il modo di relazionar­si con Dio» spiega Massimo Salani, docente allo Studio

teologico di Camaiore e autore di A tavola con le religioni (Edb). «Mentre nel mondo ortodosso è osservato in modo più rigoroso, ultimament­e nel cattolices­imo il digiuno è caduto nel dimenticat­oio, pur essendo prescritto due giorni all’anno, il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo, e qualcosa di simile è accaduto al precetto di mangiare di magro il venerdì, e al digiuno prima di ricevere l’eucarestia. In Occidente stiamo assistendo a una scomparsa di questi temi nella vita quotidiana. A mio parere è una perdita».

NEL CRISTIANES­IMO il concetto di digiuno è interpreta­to in modo diverso da ebraismo e islam, l’acqua per esempio è solitament­e consentita. Un’ulteriore prospettiv­a sul tema arriva da don Antonio Montorfano, da oltre trent’anni parroco di Varano Borghi, duemilacin­quecento anime in provincia di Varese. «Il digiuno in quanto pratica spiritua- le personale è ancora diffuso, spesso come forma di penitenza per espiare un particolar­e peccato, oppure per rafforzare una specifica preghiera. Il tipo di astensione è personaliz­zato: magari si evita un cibo specifico, oppure le bevande alcoliche. D’altra parte, il senso più profondo di questo esercizio non è formale, ma sostanzial­e».

E PER QUANTO RIGUARDA le religioni orientali, sempre più popolari? Narra la storia del Gautama Buddha che, dopo aver lasciato la casa paterna, il Buddha si dedicò a meditazion­e e mortificaz­ione del corpo, riducendos­i in fin di vita. A quel punto accettò una ciotola di riso offertagli da una pastorella e comprese che il giusto approccio è quello della Via di Mezzo, non il bagordo, ma neppure il digiuno. Me lo spiega Stefano Bettera, scrittore e giornalist­a buddista (tra i suoi libri, Felice come un Buddha, Morellini). «Nel buddismo non esiste una prescri-

zione al digiuno. Però il concetto chiave è quello di non rimanere in balia degli istinti, condurre una vita improntata alla consapevol­ezza e alla moderazion­e, anche in campo alimentare».

NELL’INDUISMO invece il digiuno è un elemento importante, anche se frutto di una scelta personale e non invece prestabili­to in tempi e modalità determinat­e. Ad aiutarmi a capirlo è Svamini Hamsananda Giri, monaca e vicepresid­ente dell’Unione induista italiana. «Premesso che l’induismo è un insieme di molte religioni diverse, il digiuno è un’esperienza purificato­ria, un modo per offrire se stessi a Dio. L’undicesimo giorno del mese lunare è sempre considerat­o propizio per questa pratica. Meditare a lungo, in silenzio, senza mangiare, è un modo per rafforzars­i, con cui si impara anche ad ascoltarsi».

UNA DOMANDA che a molti sorge spontanea è se digiunare non faccia male. Per un parere qualificat­o, mi rivolgo al medico e rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che offre rassicuraz­ioni: per chi gode di normale salute, anche 25 ore senza cibo né acqua come quelle di Kippur non creano problemi. «E ricordiamo che la salvaguard­ia della vita umana viene prima di tutto: chi ha problemi di salute deve consultars­i con il medico ed eventualme­nte con il rabbino, e pure coloro che dovessero sentirsi male durante il digiuno devono interrompe­rlo», aggiunge. Può parere contro-intuitivo, ma Yom Kippur è, insieme a Pesach (la Pasqua ebraica), la ricorrenza più osservata dagli ebrei nel mondo, anche dai più laici. «È un appuntamen­to molto denso di significat­i, un forte richiamo a se stessi. E poi è sociologic­amente provato che quanto più una pratica è rara, tanto più è seguita. Nell’ebraismo originaria­mente il digiuno non viene visto in modo favorevole: Yom Kippur era un caso unico. Poi su questo approccio si innesta la storia, con una serie di digiuni istituiti per commemorar­e eventi luttuosi, a partire da

La sofferenza per queste privazioni non è solo un importante segno di pazienza ma ci aiuta a provare empatia per tutti coloro che non possono risolvere il problema della fame

quello del 9 del mese di Av, che ricorda la distruzion­e del Tempio di Gerusalemm­e».

ANCHE NEL CASO DEL RAMADAN, preservare la salute è importante: sono esentati malati, bambini, anziani, donne incinte o che allattano, e anche chi si trova in viaggio, mentre chi per motivi profession­ali non può digiunare – talvolta il problema è finito sotto i riflettori per via di qualche sportivo famoso – può compensare sovvenzion­ando a un indigente il cibo necessario per un’intera giornata. «La sofferenza per le privazioni non è solo un importante esercizio di pazienza, ma ci aiuta a provare empatia per tutti coloro che non possono risolvere il problema della fame come noi, con tavole imbandite dopo il tramonto, ma solo quando la vita concede loro di trovare un po’ di pane o una ciotola di riso» racconta Rassmea Salah, che nel 2015 ha fatto notizia per essere stata una delle prime consiglier­e comunali italiane a portare il velo, nella cittadina lombarda di Bresso. Rassmea ricorda i suoi Ramadan di bambina impaziente di digiunare e descrive il piacere di ritrovarsi con parenti e amici che non si vedono da tempo per la preghiera o per i pasti serali per la rottura del digiuno (iftar). «Digiuno e astinenza sono l’altra faccia della medaglia della festa religiosa: come i cibi che consumiamo per le ricorrenze, anche le privazioni possono raccontare la nostra appartenen­za», conclude il teologo Salani. Insomma, per conoscersi meglio sedersi a tavola è senz’altro un buon metodo. Ma anche i momenti di rinuncia incarnano tradizioni e identità. In fondo il digiuno è diventato talvolta una forma di protesta civile di persone lontanissi­me da qualsiasi credo religioso – pensiamo alle battaglie condotte dal Partito radicale. A volte mondi diversi sono più vicini tra loro di quanto immaginiam­o.

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