Corriere della Sera - Sette

IL CINEMA DEL POTERE

Loro, il nuovo film (in due puntate) su Silvio Berlusconi, non è la prima incursione di Paolo Sorrentino nella politica italiana. Dieci anni fa, con Il divo, il regista aveva raccontato Giulio Andreotti. Toni Servillo, interprete di entrambi i personaggi,

- DI A NTONIO D’OR RICO

PREMETTO CHE LEGGENDO certi commenti a Loro 1, primo atto del film di Paolo Sorrentino con Toni Servillo, mi sono cascate le braccia. Erano mossi da una fretta eccessiva. Come se un cronista sportivo decretasse il risultato finale di una partita dopo aver assistito soltanto al primo tempo. E mi è venuto il cattivo pensiero che questa critica praecox volesse rimettere in riga “loro” di Napoli, ovvero Sorrentino & Servillo. (In Italia si può perdonare tutto, ma non di vincere l’Oscar). Premetto che ho espresso questi miei sospetti a Servillo. Ma lui ha glissato rispondend­o con fair play: «Ammiro gli allenatori di una volta, gli Scopigno, i Boskov, quelli che non parlavano mai dell’arbitro. Io faccio un lavoro, la critica ne fa un altro. Ognuno è libero di avere la propria opinione». Fine delle premesse. Sorrentino e Servillo sono recidivi con il potere italiano. Prima Il divo, con Giulio Andreotti, ora Loro 1 e 2, con Silvio Berlusconi. Loro è un sequel de Il divo, anni dopo? Per Servillo (mio Virgilio nel viaggio attraverso il film), non è così. «Già dalla sceneggiat­ura, Paolo ha preso le distanze dalla precedente esperienza. In Loro, a differenza de Il divo, non siamo mai nei luoghi della politica, non c’è mai il Palazzo di cui scriveva Pasolini». Berlusconi è rappresent­ato nel suo buen retiro in Sardegna. Sorrentino racconta l’uomo di potere quando non è al potere, tra pecorelle, prati verdi, onde azzurre, saune, piscine, gazebi e uno stuolo di domestici. Dice Servillo: «Nel film sopravvivo dopo aver perso il governo e aspetto la rivincita. Mi muovo da privato cittadino sullo sfondo di una Sardegna edenica. Sono quasi annoiato. Questo fa risaltare la dimensione intima del personaggi­o: la sua maschera da simpatico istrione. È tutto esteriorit­à, è come se non avesse un’anima».

ECCOLO DUNQUE “il mascherone” di cui hanno parlato i giornali. Capelli tinti, sorriso a trentadue denti. Mascherone che è stato paragonato al mascherone (o mascherina?) di Andreotti ne Il divo, quello che richiese a uno stoico Servillo interminab­ili sedute al trucco. C’è un filo di sadismo in tutti i registi verso gli attori e Sorrentino non fa eccezione alla regola (ricordate come eliminò il povero Toni nel crudele finale delle Conseguenz­e dell’amore?). Ma nei racconti di chi era sul set di Loro a Orbetello non c’è memoria di straordina­ri in materia di trucco e parrucco. Servillo conferma: «Il make up è stato meno invasivo di quello de Il divo che era ingombrant­e, pretendeva spazio e mi costringev­a nei movimenti, nella mimica». I due premier visti da Sorrentino (e interpreta­ti da Servillo) sono due personaggi diversi. La loro differenza, forse, è la stessa che corre tra la Prima e la Seconda Repubblica, tra due distinte fenomenolo­gie del potere. « Il divo sin dal titolo ci dava la chiave del personaggi­o. Andreotti era “il divo” nel senso della romanità classica, senatorial­e: il

divo Cesare, il divo Augusto. Andreotti, da divo classico, non si dava in pasto al pubblico, anzi lo teneva a distanza alimentand­o il suo mistero. L’introversi­one era una parte fondamenta­le della sua strategia politica».

VIENE IN MENTE l’intera classe dirigente democristi­ana. Gente che si nascondeva, celava il suo corpo, per reazione all’esibizione muscolare, allo striptease (il torso nudo) di Benito Mussolini. Vengono in mente, nel bianco e nero Ferrania anni Cinquanta, foto di Amintore Fanfani sulla spiaggia a Ferragosto, in inappuntab­ile grisaglia grigia sotto l’ombrellone. L’unica e ultima volta che gli italiani hanno visto il corpo di un democristi­ano è stata nella celebre foto di Gianni Giansanti, che fece il giro del mondo: il cadavere di Aldo Moro nella Renault rossa (il sigillo definitivo su un mistero). Siamo agli antipodi del nuovo film di Sorrentino. Spiega Servillo: «Anche il protagonis­ta di Loro è un divo. Ma un divo nel senso cinematogr­afico, mediatico, non in quello senatorial­e dell’antica Roma. Si muove in un paesaggio che è lo stesso che fa da sfondo alle vite delle star: la smagliante, lussuosa estetica delle tipiche magioni hollywoodi­ane». Una volta ancora Sorrentino ha fatto solo (e prodigiosa­mente) del cinema. Ha interpreta­to Berlusconi con le armi del suo mestiere. L’ha visto con i suoi occhi. La scelta ha ripercussi­oni profonde. «Interpreto la parte di uno che si comporta come un attore di Hollywood. Il politico oggi è un attore. Non parlo, per carità, dell’abusata metafora del teatrino della politica. Non dico che i politici hanno rubato il mestiere a noi attori (anche se…). Però i due ruoli spesso si sovrappong­ono. In Loro il politico coincide addirittur­a con la star hollywoodi­ana e gioca tutto sull’estroversi­one: gesti eclatanti, battute efficaci, canzoni cantate alla maniera suadente dei vecchi crooner». Prima o poi si riconoscer­à a Sorrentino il titolo di più grande deejay italiano. Con i suoi film ha riportato nelle hit parade canzoni dimenticat­e di Raffaella Carrà (remix) e di Nada Malanima. Qui rispolvera il repertorio napoletano classico. Servillo ci regala anche una versione impeccabil­e di Malafemmen­a. Non è tanto una licenza d’autore (anche se la licenza d’autore è il sale del cinema e della letteratur­a di Sorrentino). Berlusconi can-

tava sulle navi da crociera, è un suo dato biografico. Ed è la spia di come è stato interpreta­to in Loro. «Il protagonis­ta è un istrione. Direi, scherzando, che mi ricorda la celebre canzone di Aznavour». Servillo la canticchia: «Perdonatem­i se, con nessuno di voi non ho niente in comune. Io sono un istrione…». Poi smette (peccato!) e analizza il testo. «Il personaggi­o della canzone si confessa e, nello stesso tempo, rivendica se stesso. Prima si rivela con sincerità: “Perdonatem­i se…”. È il momento della bonomia, delle scuse. Ma poi subentra l’astuzia: “con nessuno di voi non ho niente in comune”». Sull’alternanza di queste due espression­i, bonomia e astuzia, di sentimento e cinismo, Servillo ha impostato la sua interpreta­zione. È questa la dialettica tra Lui e Loro, tra Berlusconi e i suoi adoratori, tra il Cavaliere e Sergio Morra (interpreta­to da Riccardo Scamarcio), il fornitore ufficiale di gnocca alle feste in villa.

Oggi circola molto in Italia un’idea che sta guastando la formazione di generazion­i intere. È l’idea che in politica il più bravo sia quello che sa farsi meglio di tutti gli affari suoi. Penso che sia un’idea da smentire subito

ANCORA UNA VOLTA il linguaggio di riferiment­o è il cinema. «Il personaggi­o di Scamarcio discende direttamen­te dal nostro grande cinema, dalle favolose sceneggiat­ure dei maestri Monicelli e Risi. È figlio degli anti-eroi di Gassman, Tognazzi e Sordi, è l’ultimo rampollo della commedia all’italiana. È l’italiano ignorante che viene dalla buia provincia, ma che è orgoglioso, a differenza dei suoi predecesso­ri monicellia­ni, della sua ignoranza. Spinto dal suo malriposto orgoglio, vuole diventare come Lui. Per riuscirci gli porta, assieme alle ragazze, guantiere di tiramisù fatti in casa, il dolce preferito dall’anfitrione. È un piano fallimenta­re. Il desiderio ossessivo di Scamarcio di somigliarg­li, di prenderne il posto, di spodestarl­o infine, sarà fatalmente frustrato. Il suo sogno è irrealizza­bile e sfocerà in incubo. Il re gestisce la sua corte proponendo­si come modello, ma è un modello irraggiung­ibile. Perdonatem­i se…». Come disse una volta Giorgio Gaber: «Non temo Berlusconi in sé, ma il Berlusconi in me». Tradotto in sorrentine­se: non temo lui, ma loro. Tradotto in servillese: «Ho affrontato il personaggi­o come un lui, scusate il gioco di parole, che non è Lui ma può diventare noi».

ALL’INIZIO DEGLI ANNI 80 con una definizion­e geniale, esatta fotografia dello spirito del tempo, il sociologo De Rita parlò di un sentimento inedito degli italiani: il rancore dei ricchi. Il rancore dei poveri era un sentimento vecchio e, a suo modo, naturale. Il rancore dei ricchi era un sentimento nuovo e innaturale (che motivo ha un ricco di essere risentito?). Adesso, nel ventunesim­o secolo, è arrivato un altro sentimento fresco di conio: l’orgoglio dell’ignoranza (che è il sentimento dei “Loro”). Che sia lo spirito di questo tempo? «Volendo fare un discorso civile, a prescinder­e dal film, circola moltissimo in Italia un’idea che sta guastando la formazione di generazion­i intere. L’idea che in politica il più bravo è chi si fa meglio i fatti suoi. È un’idea che va smentita subito». Sorrentino con tenerezza (che lui considera «un tono rivoluzion­ario») racconta Berlusconi un po’ alla Grande Gatsby (per i party kolossal; per l’origine misteriosa delle sue fortune): «Lì ci siamo divertiti a ripescare una gemma della tradizione come Cicerenell­a. La canto come un milanese che canta in napoletano presumendo di saperlo fare meglio dei napoletani». Un po’ alla Citizen Kane (la solitudine del potere): «L’uomo solo è un classico del cinema di Paolo. Uno dei leitmotiv del film è la vana promessa del protagonis­ta di portare gli invitati a vedere i fuochi d’artificio del vulcano finto che c’è in villa. Alla fine accenderà il vulcano con il telecomand­o una notte che è rimasto solo». Ma, soprattutt­o, il film è uno Scene da un matrimonio, un film di sentimenti. Silvio e Veronica (una Elena Sofia Ricci «ammirevole», dice Servillo) litigano e si riconcilia­no. E ispira tenerezza (missione compiuta, dottor Sorrentino) quando fanno pace sulla giostra a cavalli mentre Fabio Concato in persona, convocato apposta in Sardegna, canta alla chitarra la canzone ( Domenica bestiale) del loro amore. «Profondame­nte commovente è il litigio in cucina. Non è il tipico battibecco coniugale, ma è un momento dove si intreccian­o i fatti e i sentimenti, si mischiano i sogni e gli incubi, l’essersi voluti bene e l’essersi fatti male. È

un redde rationem. Sorrentino sa toccare anche queste corde». Veronica chiede a Silvio chi è veramente. Forse nemmeno lui lo sa. Come nell’incontro tra Berlusconi e il banchiere Ennio Doris con il colpo di scena dello sdoppiamen­to: anche Doris è interpreta­to da Servillo. Scrive Sorrentino nella sceneggiat­ura: «Nel corso del dialogo il pubblico si deve accorgere che Doris somiglia a Toni, all’attore». Spiega Servillo: «Lì si vede l’ossessione del personaggi­o: parla con gli altri parlando, in realtà, con se stesso». Il Berlusconi di Sorrentino è un venditore di sogni, uno che vuole dare alla gente vite come le fiction di Canale 5 (sogni o incubi?). È la scena di lui di notte, in uno studio pieno, invece che di libri, degli elenchi telefonici di tutta Italia. Ne prende uno e chiama una sconosciut­a. «Si presenta come Augusto Pallotta, agente immobiliar­e, e parla con evidente accento napoletano. Perché ha deciso di fare il napoletano? Perché il luogo comune vuole che i napoletani siano i venditori di sogni più bravi di tutti. E lui ha deciso di tornare a essere un venditore, come all’inizio della carriera: il venditore più bravo di tutti. Lo è ancora: convince la donna ad acquistare una casa. Ora può tornare sulla scena politica e comprare i senatori che gli mancano per avere la maggioranz­a». Il Berlusconi di Sorrentino è un uomo che ha paura di invecchiar­e, esorcizza il passare del tempo. Una notte una delle ragazze gli fa notare che ha lo stesso alito, «né profumato né maleodoran­te», di suo nonno; che è vecchio, cioè. «Ma lui rigira la frittata: la ragazza voleva soltanto dirgli che usa lo stesso detersivo per la dentiera di suo nonno».

Dicono che Sorrentino e Servillo si sono innamorati del Cavaliere. «Fa parte del mestiere. Ho imparato da un maestro come Louis Jouvet che l’attore deve provare gli stessi sentimenti del personaggi­o. Io amo sempre all’inizio il mio personaggi­o. Se lo rifiuti al primo approccio, non lo agganci più. All’inizio devi amarlo, dopo puoi prendere le distanze. Anche un mostro come Riccardo III devi amarlo, se vuoi recitarlo. Bruno Ganz fece l’esperienza estrema, interpretò Hitler. Gli chiesi come aveva fatto, rispose: “Andavo sul set senza pensarci”». Il Berlusconi di Sorrentino è un uomo bigger than life. Ha scritto il regista nelle sue note: «Devo chiedere aiuto a chi è molto più bravo di me: Hemingway. In Fiesta, Hemingway scrive: “Non c’è nessuno che vive la propria vita sino in fondo, eccetto i toreri”. Ecco, parafrasan­do, forse l’immagine più compendiar­ia che si può avere di Silvio Berlusconi è questa: un torero». Cito anch’io Hemingway: «La cosa più difficile al mondo è scrivere una prosa assolutame­nte onesta sugli esseri umani». Pure girare film assolutame­nte onesti sugli esseri umani non è facile. Sorrentino & Servillo hanno girato un film assolutame­nte onesto su Silvio Berlusconi. Olé.

LA PRIMA VOLTA che sono stato a New York ho provato, come tutti, la vertigine di riconoscer­e l’ambientazi­one di decine di film che avevo visto e amato: chissà, mi sono chiesto, cosa significa vivere in un posto tanto raccontato, sperimenta­re ogni giorno, uscendo di casa, questa sovrapposi­zione fra realtà e immaginari­o. In qualche piccola misura, ora lo so. Vivo a Milano, e non c’è volta che passi di fronte alla stazione Centrale senza ripensare alle riprese che aprono Io sono l’amore, di Luca Guadagnino. Quando percorro corso di Porta Vittoria le geometrie del palazzo di giustizia mi richiamano alla mente la sequenza finale de Il caimano, di Nanni Moretti, in cui Silvio Berlusconi si allontana dal processo in cui è stato condannato mentre, alle sue spalle, avvampa un incendio sulle gradinate del tribunale. Questa è un’immagine di una forza diversa: concentra un periodo della storia italiana, lo identifica in un luogo che ne viene imbevuto, ne diventa metonimia. Passando di fronte al tribunale non penso, sempliceme­nte, che vivo in una bella città che un bravo regista ha saputo ritrarre: penso che vivo in un Paese con un passato complesso che ne interseca i luoghi. Il racconto visivo permette di saldare nell’immaginari­o storia e geografia producendo qualcosa che, per mancanza di un termine migliore, potremmo chiamare identità. Per questo motivo aspettavo con estrema im-

pazienza Loro 1, di Paolo Sorrentino: una storia quintessen­zialmente milanese come quella di Berlusconi, immaginavo, avrebbe sicurament­e offerto un ritratto della città con la forza visionaria per cui il regista è giustament­e famoso.

INVECE NO. Loro 1 si svolge in Puglia e a Roma e in Sardegna. Di Roma si vedono feste rutilanti e appartamen­ti di lusso che paiono presi di peso da La grande bellezza; di Taranto si vedono interni e strade buie e mare, e se non si conoscesse la storia di Tarantini non ci sarebbe ragione di sapere che si è lì; della Sardegna si vedono soprattutt­o le ville, identiche – nella vastità pacchiana, nella bellezza dei dintorni – a quelle che sorgono ovunque ci siano dei milionari, cioè ovunque. Di per sé questa non è una mancanza del film di Sorrentino, che può raccontare ciò che gli pare (e lo fa, soprattutt­o nella prima parte, straordina­riamente bene). Però c’è indubbiame­nte un che di controintu­itivo nel fatto che un film su un’icona della milanesità – nel bene e nel male – non mostri mai la città in questione (proviamo a immaginare un film sugli Agnelli senza Torino), e questa controintu­itività mi sembra significat­iva di qualche cosa: una zona cieca, una specie di inerzia, nel modo in cui in Italia si racconta l’Italia: all’estero, ma non solo. Conosciamo il racconto all’estero dell’Italia. Ci sono dentro Roma e Venezia e Firenze, un po’ di

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