QUESTO NON LO SCRIVA - INTERVISTA CLASSICA
Una poetessa e uno scrittore. Lei indiana, di madre gallese, lui di Bombay, naturalizzato britannico. La politica dell'identità? «Cambia da luogo a luogo: nazionale in Gran Bretagna, religiosa in India, etnica e di genere negli Usa». Il nuovo libro dell'a
Salman Rushdie: « That’s the man! Il giorno in cui incontrai Donald Trump»
SECONDO LA NEW YORK REVIEW OF BOOKS il tredicesimo romanzo di Salman Rushdie, La caduta dei Golden, è il primo libro dell’era Trump e, pur non avendo esplicitamente per argomento il Presidente degli Stati Uniti, la sua storia è «colorata di una malsana tinta arancio». Il libro, che ha come sfondo la situazione dell’America e la sua politica, racconta la storia personale di un uomo, Nero Golden, che arriva a New York con i tre figli Petya, Apu e D. I quattro si trasferiscono in una zona del Greenwich Village dove le case si affacciano su un giardino comune. Stavolta non si tratta di una delle tante fantasiose invenzioni di Rushdie: questi giardini esistono davvero, e l’autore li ha scoperti grazie agli amici Francesco e Alba Clemente, a cui l’opera è dedicata. I giardini ricreano l’ambientazione di un anfiteatro nel quale i personaggi vivono le loro storie sotto l’occhio vigile dei vicini, mentre intorno a loro si sviluppa la storia più ampia dell’America. Il titolo lascia intendere che questo romanzo sia una tragedia; il fatto che l’autore sia Rushdie suggerisce che, in realtà, si tratta di una tragicommedia. Ho intervistato Rushdie in Galles, allo Hay Literatu- re Festival, e abbiamo affrontato il problema della politica dell’identità, parlando di Donald Trump e dello slogan «impegnativa ma buona» (« naughty but nice »), partorito da Rushdie per una torta alla panna quando lavorava da giovane nella pubblicità, che si addice altrettanto bene alla sua carriera. Di questo libro si è detto che è un romanzo su Trump, una storia di gangster, sull’immigrazione,
ma io credo sia essenzialmente un romanzo morale. È d’accordo? «Anche il mio libro precedente, Due anni, otto mesi e ventotto notti era ambientato a New York, ma era una favola con geni e via dicendo, e quasi subito dopo averlo terminato ho avuto l’impressione che fosse un romanzo d’altri tempi: un grande romanzo morale e sociale del giorno d’oggi. La voce narrante è quella del giovane regista René, che ha un’opinione di sé piuttosto alta e intende realizzare un genere di film che lui definisce “realismo lirico” e ho pensato che in effetti è il messaggio dell’autore. Dickens riesce in modo davvero brillante a creare un’ambientazione del tutto realistica. La sua città è iperrealistica fino all’estremo, e fa da sfondo a immense figure senza tempo che incarnano problematiche di ogni tipo, come le questioni morali a cui si riferiva, alla maniera delle grandi opere liriche: è questo ciò che avevo in mente». Quando Nero, protagonista de La caduta dei Golden, arriva a New York per la prima volta, non sappiamo ancora che è di Bombay, e quando glielo chiedono risponde «al diavolo il carosello dell’identità». Proprio l'identità è uno dei grandi temi del libro, al punto che lei ha creato il Museo dell’Identità… «Ne vado molto fiero perché ha tratto in inganno. In tanti sono venuti a dirmi che avevano provato a cercarlo, perché lo avevo collocato in un luogo realmente esistente. Non c’è, ma ci sarà presto! Credo che ciò che intendiamo per identità cambi da luogo a luogo. Qui, in Gran Bretagna, negli ultimi anni si è aperto un dibattito sull’identità britannica che ha creato profonde divisioni. In India il discorso è incentrato principalmente sull’identità religiosa, mentre in America i due aspetti maggiormente presi in considerazione sono l’identità etnica e di genere. È divenuto un concetto estremamente ampio. Questo romanzo narra di una famiglia che tenta di rifuggire la propria identità e che scopre che è impossibile, perché è qualcosa che ci si porta dietro. Chiunque si aggiri per le strade di una grande metropoli vede persone che sono riuscite a reinventarsi con successo. Sono arrivati da posti lontani, hanno cambiato nome e sono diventati persone nuove, ce l’hanno fatta. Credo che forse nella vita vera le persone possono scappare dal proprio passato. Non nella finzione». La fantastica libertà del migrante che reinventa la propria vita… ai migranti protagonisti dei suoi libri però non va bene, non è così? «No, infatti. Quando mi sono trasferito a New York, a cavallo tra gli Anni 90 e 2000, ho scritto Furia, anch’esso la storia di qualcuno che arriva a New York, ma senza nulla da nascondere. Stavolta c’è una nota differente. È sempre sicuramente un romanzo sull’immigrazione. C’è un genere di romanzo americano che non vorrei scrivere, il genere che, diciamo, potrebbe scrivere uno come Don DeLillo, uno nato e cresciuto nel Bronx. Qualcosa che non fa per me. Il romanzo sul tema dell’arrivo invece è molto presente nella letteratura americana, e una delle mie grandi fonti di ispirazione è stata questa nuova generazione di scrittori americani, penso a Junot Diaz, Chimamanda Adichie, Jhumpa Lahiri, arrivati da ogni angolo del mondo portando nuovi modi di pensare. Ho pensato che potevo farlo anche io: sono arrivato con le mie valigie, con dentro ogni tipo di stranezza». Nel suo libro precedente scriveva di Bombay con tenerezza, come se le stesse dicendo addio, anche se questa stessa città è di nuovo centrale anche nella sua ultima opera. Che rapporto ha con
«Nel libro precedente Rushdie scriveva di Bombay con tenerezza, come se le stesse dicendo addio. Ma questa città è di nuovo centrale nella sua ultima opera»
questo luogo? «A volte penso che tutto ciò che ho scritto nella mia vita sia scaturito da quell'angolo di mondo. La città nel frattempo non è nemmeno più la stessa, ma è l’origine di tutto e in qualche modo continuo a farvi ritorno. È proprio il mio luogo natale. La casa in cui sono cresciuto si chiama Windsor Villa… faceva parte di un complesso edificato da un imprenditore di Bombay che ha scelto nomi inglesi perché era un anglofilo. Un’altra porzione si chiamava Christmas Eve (la vigilia di Natale), e infatti lì il Natale non si festeggiava mai. ( Ride). Solo un puntino bizzarro sul mappamondo, ma importantissimo per me».
Vorrei parlare del motivo per cui ha attinto alla mitologia classica per scrivere un romanzo spiccatamente contemporaneo. «Lo faccio sempre, dal mito indiano e da quello occidentale. Nella saga degli Atridi, fin dall’inizio dell’opera si sa già cosa accadrà. Sai già che Clitennestra ucciderà Agamennone. Non fai altro che startene lì seduto ad aspettare che succeda, e in questo senso di profetica anticipazione è racchiuso, in sostanza, il valore della tragedia greca, ovvero l’ineluttabilità del fato. Nero e i suoi figli vanno incontro a qualcosa di simile. Hanno attraversato mari e monti per sfuggire al loro destino, ma credo sia ben chiaro al lettore che non ce la faranno. La questione allora è come, quando e in quale forma si presenterà loro la nemesi. Questo aspetto l’ho imparato dalla classicità, il senso dell’inesorabile». Già che siamo in tema di denaro, la storia della famiglia Golden ruota intorno alla hybris e alla ricerca del benessere economico. Come mai ha deciso di dedicarsi a questo argomento? «Perché è importante, giusto? È ciò che ora come ora muove il mondo. Se hai i soldi le porte ti si aprono e puoi entrare a far parte di tutta una serie di giochi di potere che ti sono preclusi se invece i soldi non ce li hai, e talvolta potresti essere allettato da orrendi misfatti. Volevo che nel libro accadesse questo. Nero non è altro che un ricco. Non un ricco particolarmente cattivo, solo ricco. E poi Nero è nel settore immobiliare, gli piace vedere il proprio nome scritto bello grosso sui palazzi, e ha una moglie russa, un trofeo. Tutto questo risale a prima che i miei pensieri sfiorassero Donald Trump. L’ho inventato prima della sua entrata in scena, ed è stato abbastanza inquietante vedere all’improvviso nella realtà le persone che avevo appena…» ...Quindi è colpa sua? ( Ride). «Può darsi che sia colpa mia. E le farò un’altra confessione. Ho incontrato Trump solo tre volte ed è stato molto cordiale. Una volta ero alla Metropolitan Opera House: mi è venuto incontro con il suo entourage, ha schioccato le dita come fa lui e ha detto “That's the man!” (“Tu sei un grande”). E io, che avevo la battuta pronta, gli ho risposto “No Donald, tu sei un grande!”, e se n’è andato via tutto contento. Poi l’ho visto a un concerto di Crosby, Stills & Nash, dove sapeva tutte le canzoni a memoria. Ho pensato che fosse molto strano che Donald Trump conoscesse il testo di Woodstock. La terza volta invece mi ha offerto il suo posto agli US Open di tennis… Ha detto che potevo usare il suo posto quando volevo, ma essendo Donald Trump non ha usato queste parole, ha detto “Ho il posto migliore di tutti”». Nel romanzo affronta il tema della politica dell’identità e di come la chiusura ci intrappola tra settarismi locali e ci preclude la magnificenza dell’universale. Potrebbe approfondire questo argomento? «Uno dei problemi della politica dell’identità è che richiede di definirsi come un qualcosa. Tu sei questo e non quello, perché in questa ottica ciò a cui ti contrapponi è importante tanto quanto ciò che dici di essere. Questo tipo di chiusura aumenta notevolmente le probabilità di arrivare a un conflitto o a un disaccordo. Al contrario, il romanzo come genere ha sempre dimostrato che l’essere umano non è fatto in questo modo. L’uomo ha tante sfaccettature, è contraddittorio ed è 17 cose per volta. Come diceva Walt Whitman, “Mi contraddico? Certo che mi contraddico!”. Chiunque si dedichi alla letteratura come scrittore o come lettore sa che l’uomo è questo. Siamo contraddittori e incoerenti, e per questo interessanti». E ci sono poi degli universali, tra cui la libertà di parola... «In questo momento l’idea che esista una verità universale è sotto assedio. È interessante notare che, storicamente, i suoi principali oppositori erano di destra. Despoti che trovavano un vantaggio nel relativismo culturale. Puoi pensarla così lì da te, ma qui da noi la vediamo diversamente. I leader cinesi hanno usato questa argomentazione per un sacco di tempo. Ora trovo preoccupante il fatto che questa opinione sia condivisa tanto a destra quanto a sinistra. L’idea che non può esserci una verità universale. Ma se questa non c’è, tutti i sistemi etici vanno immediatamente in frantumi. È un
«In questo momento l’idea che esista una verità universale è sotto assedio. È interessante notare che, storicamente, i principali oppositori erano di destra. Despoti»
aspetto del problema che coinvolge tutti noi». Può dirmi qualcosa del ruolo dell’intellettuale pubblico e della sua evoluzione da quando lei ha iniziato a scrivere? La cultura pare abbia subito un duro contraccolpo… «Credo proprio che stiamo attraversando un periodo marcatamente anti-intellettuale. Prova ne è, tra l’altro, il fatto che avere cultura sia generalmente visto come qualcosa di elitario. Come siamo arrivati a questo punto? In un Paese che conta più miliardari al governo oggi che non in tutta la storia americana, sono davvero gli scrittori e i professori l’élite? Non siamo noi quelli con l’aereo privato o con la casa sulla spiaggia agli Hamptons, eppure in qualche modo il sapere è stato classificato come elitario, quindi staccato dalla realtà, ed è molto preoccupante… Le elezioni di metà mandato di novembre saranno eloquenti in tal senso. Ci diranno se è stato tutto solo una terribile deviazione e stiamo tornando alla normalità, oppure se invece la nuova normalità è questa e faremmo meglio ad abituarci; onestamente non so quale delle due sia vera».
«Chiunque si dedichi alla letteratura sa che l’uomo ha tante sfaccettature. Siamo contraddittori e incoerenti, e per questo interessanti»