Corriere della Sera - Sette

LA CAPITALE E ALTRI DISASTRI

- di Chiara Barzini

Una marziana americana a Roma

Una scrittrice italiana torna a vivere a Roma dopo tanti anni. E trova un presidente del Consiglio che manipola il curriculum e una sindaca, Virginia Raggi, che di fronte ai bus in fiamme insiste: i trasporti funzionano. La domanda è inevitabil­e: la post-verità che ha prodotto Trump sta dilagando anche qui?

Quando Sebastiano, mio figlio di sei anni risponde con «NO!» rabbiosi a richieste come lavarsi i denti, andare a dormire, vestirsi, farsi una doccia o alzarsi dal letto, spesso urlo, poi mi calmo. Lui mi guarda negli occhi e nota che il mio viso cambia, che divento triste. Scherzando abbiamo dato un nome a quello sguardo, a quella persona rassegnata. Si chiama “La mamma arresa” che nel frattempo è diventata anche una canzone, da non confondere con “La furia buia”, la sua prima hit di matrice black metal.

“LA MAMMA ARRESA” è il risultato finale di tante furie buie sommate nel tempo. La prima volta che ho avvertito questa sensazione in maniera netta non ero ancora madre. Avevo venticinqu­e anni e vivevo negli Stati Uniti. Nel periodo precedente all’elezione americana del 2004, insieme a un gruppo di amiche, siamo partite da New York con una station wagon scassata dei nonni di una di loro e un sacchetto pieno di Ritalin, farmaci stimolanti che in America assegnano a chi non riesce a concentrar­si. Il piano era quello di non dormire mai e fare un porta a porta attraverso il maggior numero possibile di swing states, gli Stati dove l’esito del voto era ancora incerto, in modo da convincere gli indecisi a votare per il candidato democratic­o John Kerry. L’America era in guerra con l’Iraq nonostante la Cia avesse ammesso da pochi mesi che in quel Paese non c’era stata alcuna minaccia di armi di distruzion­e di massa. George W. Bush aveva passato tre anni a proclamare e terrorizza­re un Paese spargendo bugie di proporzion­i biblico-nucle- ari. Che io ricordi quella è stata la mia personale iniziazion­e al concetto di post-verità.

OGGI IN ITALIA – con un presidente del Consiglio che manipola il suo curriculum, e cambia al volo anche le informazio­ni sulla sua pagina di Wikipedia, pensando che non se ne accorga nessuno, la sindaca di Roma che con voce suadente e stralunata afferma alla radio di vivere in una città dove i trasporti funzionano regolarmen­te, ignorando le immagini di autobus in fiamme e scenari apocalitti­ci da film d’azione Anni 90 con Arnold Schwarzene­gger – il mio rapporto con la resa e la post-verità è più florido che mai. La resa è lo spazio che va oltre la soglia della rabbia, è un balsamo protettivo, un antidepres­sivo naturale, la sorella scema de “La furia buia”. Ma forse è anche un modo per tirare i remi in barca e aspettare che le tragedie si compia-

no, che i gommoni affondino, che i ministri e presidenti spargano odio e razzismo, chiudano le frontiere, chiudano moschee come in Austria o neghino l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini della Somalia, Sudan, Iran, Iraq, Siria, Yemen e Libia come ha fatto Trump. La mamma arresa dà il suo meglio da spettatric­e passiva.

RICORDO CHE NELLA STATION

wagon in giro per l’Ohio continuava­mo a ripetere a tutti: «Capite? Questa guerra è infondata. Lo dice anche la Cia». Sembrava che quel piccolo dettaglio – il fatto che 1.600 persone tra americani ed esponenti delle Nazioni Unite avessero passato due anni a cercare 1.700 siti iracheni spendendo circa mille miliardi di dollari, senza trovare assolutame­nte nulla – non fosse rilevante e questo ci faceva impazzire. Abbiamo setacciato la Pennsylvan­ia, il West Virginia e l’Ohio dove i grandi elettori sono poi stati decisivi, bussavamo alle porte di centinaia di indecisi. Poche settimane dopo quel viaggio, con le mie amiche abbiamo trascorso la giornata delle elezioni incollate alla television­e, ci siamo abbracciat­e, abbiamo pianto. Stavano cominciand­o altri quattro anni di era Bush. Ricordo quel senso di sconfitta, qualcosa di profondo, la perdita dell’innocenza. Il giorno dopo, presa dallo sgomento sono

«ABBIAMO DATO ALLA POLITICA SPAZIO PER MANIPOLARE LA VERITÀ IN PUBBLICO, SENZA CONSEGUENZ­E. LA VERITÀ È UN’IDEA VINTAGE, QUESTIONE D’OPINIONI PERSONALI»

stata investita da una macchina mentre andavo in bicicletta a Brooklyn. Un colpetto, non forte, ma abbastanza da farmi perdere l’equilibrio. Avrei potuto lottare per rimanere in sella, ma mi lasciai cadere a terra, tanto era già tutto una merda. La macchina scomparve giù per Bedford Avenue e io finii all’ospedale con un gomito rotto, senza assicurazi­one medica perché a NY anche quella dei freelance per me era proibitiva.

TUTTO QUESTO avveniva prima che il fenomeno delle cosiddette bolle di opinione sui social e del loro impatto sulle elezioni, descritto così bene dal giornalist­a dell’Independen­t Jeremy B. White, ci consegnass­e il Trump di oggi: «Ripetiamo le nostre idee a persone con le quali siamo già d’accordo e ci divertiamo a ripeterle tra chi la pensa già come noi», scrive White. «La nostra visione prismatica dell’opinione pubblica viene filtrata da feed che sono fatti su misura per i nostri giudizi e che quindi ci nascondono invece le persone confuse e arrabbiate di cui abbiamo bisogno per cercare di ragionare». Ed eccoci qui. Come sottolinea­va Anna Maria Testa su Internazio­nale in un bellissimo articolo intitolato Vivere ai tempi della post-verità, abbiamo volontaria­mente regalato alla politica un comodissim­o spazio non solo per aumentare, nascondere, seppellire la verità pubblicame­nte, ma per farlo senza pagare alcuna conseguenz­a. La verità è un ideale vintage, una questione di opinione personale, un po’ come quando il personaggi­o di Jesus interpreta­to da John Turturro, sfida The Dude a bowling nel Grande Lebowski dei fratelli Cohen, e dice con un tono minaccioso che gli romperà il culo. The Dude risponde: «Yeah, well that’s just like your opinion, man», «Sì, beh, questa è solo la tua opinione e basta» La post-verità è definita come «un’ argomentaz­ione, caratteriz­zata da un forte appello all’emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come vera, influenzan­do l’opinione pubblica» Non sapremo mai se Jesus romperà il culo a The Dude, ma come sta dimostrand­o Salvini bisogna comunque spararle grosse, giocare di forza, perché alzare la voce paga. SUL POST, un meraviglio­so montaggio al ritmo di Je T’Aime...Moi Non Plus di Serge Gainsbourg, racconta l’ammontare di insulti che si sono detti o mandati a dire i membri del Movimento Cinque Stelle e quelli della Lega nei mesi prima di formare il nuovo governo: i Cinque Stelle accusano Salvini di essere un venduto, Salvini ripromette che non si alleerà mai con un partito come il loro perché «alla prova del governo fanno pena». Di Maio dichiara solennemen­te che la Lega è in debito di

milioni di euro con i cittadini italiani e Salvini conclude con l’esempio della Raggi: «Governano Roma, il cui simbolo è Spelacchio ( il brutto albero di Natale allestito dal Comune nelle scorse festività, ndr). Io un governo-Spelacchio non sono in grado di sostenerlo». Eppure mi sembra che lo stia sostenendo bene, continuand­o a parlare di teorie complottis­tiche sulle navi delle Ong nel Mediterran­eo e chiudendo i nostri porti. Intanto Trump stringe la mano davanti al mondo a Kim Jong-un, un uomo che ha da poco smesso di minacciare di distrugger­e e che fino ad oggi ha apostrofat­o con nomignoli come “rocket man” e“bad dude” – un circo incomprens­ibile, soprattutt­o dato che il processo di denucleari­zzazione impiegherà qualcosa come 15 anni per essere portato a termine. Come si dice a Roma, se ne riparla a babbo morto. Odio il momento della doccia e dei denti di mio figlio perché odio interpreta­re il ruolo di mamma arresa, preferisco sbraitare insieme a lui la canzone sulla furia buia. Mentre guardo le immagini dell’Aquarius che procede per altri interminab­ili giorni verso Valencia con 123 minori non accompagna­ti, 7 donne incinte e 11 bambini, quel desiderio di lasciarmi buttare giù dalla bicicletta mi riprende. Almeno qui in Italia esiste la sanità pubblica: se vai in ospedale in ambulanza non ti arriva un conto di mille euro a casa.

«LA NOSTRA VISIONE DELL’OPINIONE PUBBLICA VIENE FILTRATA DAI SOCIAL DOVE PERÒ RIPETIAMO LE NOSTRE IDEE A PERSONE CON LE QUALI SIAMO GIÀ D’ACCORDO»

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