SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
Cronaca di un concerto da favola (gustato a una certa età)
Mi sono infiltrato tra i fan di Vasco
Una giovane fedelissima del Blasco mi ha trascinato allo Stadio Olimpico di Torino. Sembrano tutti aver seguito l’evoluzione del rocker, ripulito da vecchi vizi e cattivi pensieri. Sarà vero? È stata una bella scampagnata musicale, ma quei cellulari...
ONORE A DADO, PRESUMIBILMENTE Edoardo. Onore a lui che, nel bel mezzo di C’è chi dice no, dice invece sì al continuo miagolare della fidanzata: «Amore ho sete, vai a cercare da bere?» e parte cercando di aprirsi un sentiero in questa foresta umana. Buona fortuna, Dado. Stadio Olimpico di Torino. Sono qui. Per la prima volta in vita mia sul prato. I (pochi) concerti fino a oggi li avevo visti dalla tribuna. Coccolato da qualche sponsor, con un comodo cuscino sotto il sedere. Poi nella mia vita è arrivata Lei, una specie di benefico, inarrestabile, giovane tornado, che un bel giorno mi dice, con gli occhi che ridono: «Ho preso i biglietti per il concerto di Vasco! Prato Gold! Sei felice?». Avevo due mesi davanti per capire se ero davvero felice. Ho 56 anni, sono claustrofobico, mal sopporto l’idolatria, i miei cantanti preferiti sono tutti morti, e poi dove parcheggio? Farà caldo? E se mi scappa? Ci saranno le zanzare? Insomma, quei pensieri un po’ pantofolai che quelli della mia età e dintorni, comprenderanno. Lei, Miss occhi che ridono, in questi 60 giorni non ha fatto nulla, ma proprio nulla, per tranquillizzarmi: «Indossa una maglietta che poi dovrai buttare via perché nel prato tirano qualunque cosa, metti delle scarpacce perché ci sarà fango, vedrai passare tanti spinelli di mano in mano, vedrai tante ragazze che si toglieranno il reggiseno, dovrai reggere corpi di persone che svengono, sarà una calca in mezzo a gente completamente ubriaca ma sarà tutto divertente!!».
ALLA FINE «OCCHI CHE RIDONO» batte ansia uno a zero. Ed eccoci in macchina verso Torino. Sono le due del pomeriggio. All’autogrill ecco i primi fan. Tutto sembrano meno che tipi da sesso, droga e rock’n roll. Attempate
signore, panciuti mariti, qualche figlio già plagiato in età adolescenziale. Magliette d’ordinanza e rustichelle. I più scalmanati cantano in coro «Olè , olè, olè olè, Vascoooo Vascooo» quando incrociano «Occhi che ridono» che indossa una vecchia, sbiadita, ma imperdibile t-shirt del tour Fronte del Palco (1990). Sono un po’ tutti uguali. Ne ho conferma quando arriviamo allo stadio. C’è un bel prato sotto l’Olimpico. Si bivacca lì. Tra salamelle e birra carissima. L’aria che tira è quella di un’allegra scampagnata. Lo leggo anche dalla faccia triste e un po’ spersa di uno spacciatore che si avvicina e, con la stessa voglia che hanno i liguri quando devono vendere la focaccia ai milanesi, ci chiede se vogliamo comprare un po’ di fumo. Basta scrollare la testa e lui si allontana con mestizia. Quelli dei fan club, sotto i pullman improvvisano tavolinetti con frittate e insalate di riso portate da casa, come si fa quando si va in gita al santuario. Quando entriamo, il prato è già al completo, basterebbe sistemarsi un po’ di lato. Macché, ma va’ là! Bisogna andare più al centro possibile. L’erba è coperta da un pavimento di plastica e il pavimento è coperto da migliaia di bottigliette di Heineken (di plastica) ormai svuotate che scricchiolano sotto le suole. Sì, qui può andare bene: siamo a una ventina di metri dal palcoscenico, il caldo non è eccessivo e l’ascella del bestione tatuato alla mia sinistra per adesso non dà segni di cedimento. Siccome le persone di una certa età amano essere puntuali, alle 9 precise, entra in scena Vasco. Quelli seduti si alzano, quelli già in piedi avanzano, quelli bassi si spostano, quelli alti no. Vasco è laggiù, piccolo piccolo. Nascosto dalla foresta di braccia e smartphone che ho davanti agli occhi. Perché l’importante non è esserci, ma far sapere che ci sei. E da quel momento è solo un facebookolare, un wazzappare, un instagrammare.
TUTTI SALTANO SUL POSTO, «Occhi che ridono» compresa. Potrei farlo anche io, ho alle spalle anni di allenamento sulle solenni note di «chi-non-saltablucerchiato-è-è!». Invece resto immobile, rapito dall’entusiasmo generale. E poi devo essere pronto a incassare quello che mi tireranno, a passare oltre lo spinello che mi offriranno, a tenere a bada l’ubriaco che mi vomiterà sui piedi e soccorrere gli svenuti. Sono pronto a tutto. Ma niente. Anche i reggiseno rimangono al loro posto. Rarissime le eccezioni delle quali peraltro si poteva fare tranquillamente a meno. Questi fedelissimi sembrano aver seguito anagraficamente la parabola di Vasco, oggi ripulito da tutti i cattivi pensieri e più incline a una vita sana, altro che spericolata. L’unico vero spericolato qui dentro resta il povero Dado che ha finalmente concluso la sua marcia verso il bibitaro. Telefona, sta tornando ma non riesce a capire dove sia la sua assetata fidanzata. Scatta una specie di pronto soccorso, lei alza lo zaino rosa, noi lo illuminiamo affinché lui posso vederlo da lontano. Eccolo finalmente, arriva stremato, con una birra nella mano sinistra e una bottiglietta d’acqua nella destra mentre Vasco intona Come nelle favole. E sembra scritta per loro.