Il “Teorema di Figalli“prova l’incapacità della nostra università
«NON SIAMO MICA stupidi! Lo sapevamo anche noi che Alessio Figalli era un fuoriclasse. Mica l’abbiamo scoperto solo dopo che gli hanno dato la cattedra in Texas! Abbiamo cercato anche noi di prenderlo!». La notizia dell’assegnazione della medaglia Fields, l’equivalente per la matematica del Nobel, «per i suoi contributi al trasporto ottimale, alla teoria delle equazioni derivate parziali e alla probabilità», riporta alla memoria un garbato ma vivace scambio di opinioni con un professore della Sapienza.
Il docente aveva sentito come, durante un dibattito tivù, io avessi tirato in ballo il “caso Figalli” come esempio di quanto l’università italiana fosse troppo spesso incapace di intercettare i potenziali geni. O peggio che incapace, restia a intercettare ogni potenziale «rivale» futuro in base al «teorema di Villautarchia».
RICORDATE? Ne scrivono Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino, Giovanni Peri e Roberto Perotti nel libro Lo splendido isolamento dell’università italiana. È come nel calcio, spiegano. Quando una squadra di brocchi preferisce prendere un altro brocco piuttosto che un campione: «La “squadra” di Villautarchia non gioca un campionato, ma solo amichevoli, spesso truccate; riceve un contributo fisso dalla federazione
indipendentemente dai risultati; e gli spettatori di Villautarchia non hanno alternative: o vanno allo stadio locale, o non vedono partite di calcio. Prendere Ronaldinho ( oggi Ronaldo, ndr) scombussolerà la tranquilla vita dei giocatori, che si allenano solo una volta alla settimana; toglierà la leadership della squadra al vecchio capitano quarantenne; e farà risaltare l’inadeguatezza dell’allenatore…»
Eh, no!, saltò su il prof della Sapienza spiegando che anche l’ateneo romano aveva cercato di prendere quel ragazzo prodigio romano. Ma come? Prospettandogli un concorso, come dire, «su misura», che avrebbe vinto facile facile. Al che Alessio (a prescindere dalle lusinghe di Austin dove, al di là della cattedra e dello stipendio, avrebbe trovato un ambiente più aperto, stimolante, internazionale) si sarà chiesto: ma come, in America scommettono su di me dandomi la cattedra a 27 anni e qui, a casa mia, dovrei entrare adattandomi ai percorsi ambigui usati per piazzare i figli, i cognati, i cugini, le nuore dei rettori e dei baroni? Esposto ai ricorsi di chi era in coda prima? In un mondo che rifiutò perfino il futuro Nobel Carlo Rubbia («la parola giusta non è respinto: fui “bocciato”») e si mise di traverso allo storico Carlo Ginzburg chiamato dalla Normale?
DICE TUTTO l’ultimo Rapporto Biennale sullo Stato del Sistema Universitario e della Ricerca. Dove si spiega che l’età media dei docenti in ingresso, negli ultimi anni, ha avuto un’impennata pazzesca. Basti dire che nel 2011, l’anno in cui l’ateneo di Austin diede la cattedra a Figalli, l’età media dei «docenti in ingresso» tra gli ordinari era di 58 anni. Oltre il doppio di quelli di Alessio. Nel complesso, dal 1988 al 2015 l’età media dei docenti in ingresso è schizzata in Italia da 39,1 a 48,2 anni tra i ricercatori, da 46,9 a 52 tra gli associati, da 53,4 a 59,6 tra gli ordinari. Certo, ci sono ottantenni brillantissimi e trentenni già «sdraiati», per dirla con Michele Serra. Il panorama generale, però, è da mani nei capelli.